L’oro della memoria

Da oltre un mese non scrivo più recensioni. Leggo libri e vado al cinema con la stessa intensità di sempre. Che mi si sia inaridita la penna? Neanche questo è vero. Eppure ogni qualvolta mi avvicino alla tastiera del pc la mia attenzione è presa da qualcos’altro. Per spiegarlo devo fare qualche passo indietro.
Tempo fa avevo visto un film, uno splendido documentario, “Finding Vivian Maier” di John Maloof e Charlie Siskel, che avevo commentato su queste colonne. Agli ultimi Oscar era stato inserito nella cinquina delle nomination tra i migliori doc del 2014. Per me una scoperta sconvolgente, una di quelle visioni che ti accendono la lampadina in testa. Vivian Maier, un’esistenza solitaria e sottotono vissuta come bambinaia in importanti case americane, per tutta la vita aveva scattato fotografie senza preoccuparsi dei soggetti, ma soprattutto senza averle mai sottoposte al giudizio o anche solo all’attenzione di alcuno. La faccio breve e rimando alla lettura della mia recensione: grazie al giovane John Maloof, Viviane Maier è diventata un caso fotografico di carattere planetario. Dopo la sua morte Maloof era entrato in possesso dell’apparentemente misera eredità della donna, scatoloni e bauli pieni di scartoffie e soprattutto migliaia e migliaia di negativi di scatti fotografici. Anche di una certa qualità, come dimostra la celebrità postuma che ne ha ricavato. Maloof li ha passati allo scanner e ha dato nuova luce a quelle foto.
Così mi sono deciso. Ho acquistato un apparecchio da poche centinaia di euro e ho cominciato a digitalizzare le pellicole di mio padre che dormivano in uno scatolone impolverato in cantina, per fortuna con vaghi principi di catalogazione. A mio padre Alessandro la mania della fotografia era nata sulla fine degli anni Cinquanta. Da allora ha sempre fotografato e sviluppato e stampato in bianconero e smaltato le sue foto che, se conservate, dovrebbero trovarsi tra i cassetti dei ricordi di persone sparse per mezzo mondo. Solo negli anni della vecchiaia era passato ad apparecchi più convenzionali, al colore, alla riproduzione in centri stampa. Ma ormai era finita la poesia.
E’ per questo che quando mi siedo davanti al pc per qualsivoglia motivo, la mano sinistra va ad accarezzare lo scanner Epson e lo accende, la mano destra prende una busta di pellicole dallo scatolone – a volte a caso, a volte cercando quelle più insolite e datate – e la libidine ha inizio. Sono preso in un vortice, sono diventato bulimico di negativi, ho la frenesia di ridare loro la luce, di ricostruire volti, luoghi, situazioni. Ripulisco ogni volta la superficie dello strumento, maledico il pulviscolo che ogni volta si deposita, spolvero il negativo, lo posiziono a seconda del formato e via con l’anteprima. Attendo con ansia l’esito sullo schermo. Correggi la luminosità, cambia le impostazioni, ritaglia, ingrandisci, archivia.
Davanti all’obiettivo di Alessandro Caldara sono passati battesimi, comunioni, matrimoni di parenti e conoscenti, viaggi, eventi, raduni. Ha fotografato scorci che non esistono più e che oggi mi piace cercare nei suoi scatti. Aveva una sensibilità particolare verso i bambini, soggetti peraltro facili da riprendere perché privi delle sovrastrutture mentali dei grandi. Ma lui ci metteva un tocco in più.
Un capitolo a parte meritano lo sci – praticarlo era un’altra sua grande passione, le nostre domeniche in montagna sono documentate fin sui bricchi più impensati e alti – e l’atletica. Per le mie gare mi seguiva ovunque, a volte procurandomi un adolescenziale imbarazzo nei confronti di compagni e amici. Sì, perché come a volte succede tra padre e figlio, non ho ereditato alcuna delle sue capacità e delle sue passioni. Neppure quella del Toro, lui era simpatizzante ma molto critico e tiepido, semmai l’ho ereditata trasversalmente dagli zii…
Una sua mania era quella di fare le fototessere. Tirava un lenzuolo bianco tra una finestra e un armadio, montava le lampade, accendeva e faceva sedere davanti alla sua Rolleiflex su cavalletto chiunque gli passasse a tiro. Un vero e proprio set fatto in casa. Ora archivio con divertimento quegli scatti di parenti, amici, conoscenti nelle cartelle denominate “ritratti 1959”, 1960, 1961…
Da bambino con lui ho passato ore e ore prigioniero in camera oscura (in realtà non vedevo l’ora di scappare fuori a giocare) e ho visto forme e immagini palesarsi sulla carta fotografica immersa negli acidi di sviluppo. Quelle stesse immagini che ora vedo ricomparire sullo schermo. E’ un po’ come fare i conti con me stesso, con la mia vita, con tutto ciò che mi ha circondato. Solo ora mi rendo conto della ricchezza che mi ha lasciato: l’oro della memoria. Oggi mi ritrovo tra le mani un tesoro. Riannodo fili, ricordo persone, fatti dimenticati. Cerco i protagonisti, o i loro parenti, di quegli scatti, ridistribuisco foto in .jpg (i social network aiutano molto…). Anche persone che non ho conosciuto o che ricordo solo vagamente. In questo modo celebro mio padre e faccio rivivere i suoi scatti. E non mi acquieto: solo quando avrò terminato potrò tornare a guardare avanti.

Forse devo qualche spiegazione sulle foto che ho scelto.
– mio padre Alessandro è ritratto dal nipote Fulvio Clementi in un momento di relax appoggiato al gabbiotto dello skilift al sole del Col de Joux (1981);
– la bambina sulla sedia è una lontana parente di mia madre, quindi una mia cuginetta di terzo o quarto grado. Foto scattata a Pas-des-Lanciers, sobborgo di Marignane, vicino a Marsiglia, durante un viaggio in moto dei miei genitori nel 1959;
– mia sorella Silvana e io siamo ripresi accanto al mitico e storico mappamondo di Diano Marina. E’ il primo mare e la prima vacanza di cui ho memoria: avevo 4 anni, era il 1955.
– e la domenica si andava tutti ‘fuori porta’, come dicono a Roma. Ogni festività un ricordo. Qui siamo dai parenti di Marmorito, sì proprio quella resa celebre dal Carlino di Giorgio Faletti. Ho degli scatti bellissimi, quel giorno mio padre era ispirato. Era il 1959, saltano la corda mia sorella Silvana (al centro) e le mie cugine Laura e Susanna. Entrambe non ci sono più, portate via anzitempo a pochi anni l’una dall’altra da quella terribile malattia con cui dovremo fare i conti tutti;
– infine i raduni militari. Il 1961 era l’anno delle adunate a Torino. Lui, ex-marinaio che ha raccontato le sue vicende in Quelli di sottocastello (1978), non poteva mancare di documentare quello della Marina Militare Italiana (15 ottobre 1961).

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