Ho letto “La verità dell’alligatore” di Massimo Carlotto

Puoi togliere il blues dall’alcol ma non l’alcol dal blues.
Alle fine ho ceduto alle insistenze di una mia cara amica che mi incitava a leggere Carlotto, uno scrittore che avevo rimosso, come quasi tutti i giallisti italiani. Ora i suoi libri cominciano a essere parecchi e tanto valeva metterci un occhio, inevitabilmente prendendolo dall’inizio, dal primo romanzo della serie che ha per protagonista Marco Buratti, soprannominato l’Alligatore, un investigatore ‘molto’ privato. Uno che ha conosciuto così bene le patrie galere da averne assorbito psicologie e modalità d’azione trasferite poi nella sua nuova attività. Insomma, uno che va molto per le spicce. Il soprannome invece gli deriva da un gruppo blues – genere musicale che conosce in maniera maniacale – di cui era il cantante negli anni della gioventù.
Dalla galera sono uscito senza più la voglia di cantare e suonare. Mi va solo di ascoltare.
Nella sua Padova, in un’estate torrida, Buratti è chiamato a rintracciare un pregiudicato in regime di semilibertà, Alberto Magagnin, che non ha più dato notizie di sé. Il suo avvocato, Barbara Foscarini, è preoccupata per la sua sorte. Facendo parlare altri detenuti semiliberi e poi spacciatori in attività, l’Alligatore riesce a scovare il suo uomo, che ha ripreso a drogarsi e si è rifugiato da una professoressa che era stata giudice popolare al suo processo e che ha come insospettabile vizietto quello delle pratiche sadomaso. Solo che la donna è stata trovata assassinata, con le stesse modalità dell’omicidio per il quale Magagnin era stato condannato nel 1976.
L’odore mi colpì come se da dietro la porta ci fosse stato qualcuno nascosto con uno sfollagente. Barcollai e a stento riuscii a controllare un conato di vomito. Non avevo mai sentito nulla di simile, ma non ci voleva una grande immaginazione per capire di che si trattasse.
E’ il sospettato numero 1 anche per questo omicidio, naturalmente. Ma l’Alligatore capisce che è innocente per questo e per quell’altro e continua a indagare con i suoi metodi, arrivando sempre un attimo prima della polizia, per ristabilire la verità anche postuma, perché il Magagnin intanto se n’è andato per una overdose.
La girandola di avvenimenti coinvolge la “Padova bene”, con i vizi e viziacci tipici della provincia italiana: droga, orge, prostituzione, ricatti. Proprio quegli ambienti che Buratti ha frequentato prima di finire in galera e diventare in seguito una sorta di giustiziere.
Era arrivato il momento di uscire di scena. Salimmo sulla moto e ci allontanammo lentamente.
E’ narrativa di grana molto grossa, roba che si legge senza stare a pensarci su. Niente di nuovo, pura evasione. Carlotto utilizza tutti gli ingredienti classici del noir. Lo scrittore padovano fa abbondante uso di citazioni da film e da canzoni, non solo blues. All’Alligatore fornisce un bagaglio di esperienze forti: nel suo passato la musica, una donna lasciata in Francia, la galera, l’alcol (massicce dosi di calvados) e un riscatto morale tenuto però sotto traccia. Proverò a leggerne altri.

 

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