Ho letto “Storia naturale della distruzione” di W.G. Sebald

Era la notte di domenica 27 novembre e non riuscivo a dormire. A Fuori Orario di Rai Tre – erano circa le 4 – trasmettevano una serie di film di Alexander Kluge tra cui “Nella tempesta del tempo” (Im Sturm der Zeit) del 2007. Sullo schermo scorrevano le immagini dei bombardamenti su Berlino e in particolare quelle degli animali che bruciavano vivi nello zoo tra urla strazianti. Sono rimasto basito dalla coincidenza: poche ore prima avevo iniziato la lettura di “Storia naturale della distruzione”, un insieme di scritti sulla guerra aerea in Germania.
Lo zoo sarebbe dovuto diventare una delle scene madri nella rappresentazione dei lunghi momenti, giorni, anni di terrore. Così scrive Sebald, che continua: ….Perse la vita un terzo dei duemila animali rimasti ancora sul posto. Corse la voce che i leoni erano fuggiti, in realtà giacevano asfissiati e carbonizzati nelle loro gabbie, così come i coccodrilli, distrutti insieme alla loro foresta vergine artificiale. Kluge dà conto di tutto ciò nel suo documentario e peraltro Sebald lo cita più volte.
Il piano di bombardamenti indiscriminati, caldeggiato fin dal 1940 da alcuni gruppi all’interno della Royal Air Force e messo in atto a partire dal 1942 con immenso dispendio di risorse umane ed economico-militari, era strategicamente o moralmente giustificabile e, in caso affermativo, in che modo? Sebald cerca di dare una risposta, non tanto a questo interrogativo quanto al perché per decenni dalla fine della guerra non si è analizzata questa pagina di storia né da una parte né dall’altra. Per parte inglese Sebald liquida la faccenda con le controversie tra le alte gerarchie militari, divise nel valutare il modo di condurre il conflitto. In Inghilterra ci vollero anni prima di volgere uno sguardo storico retrospettivo e tentare un chiarimento etico sui seicentomila civili tedeschi morti sotto le bombe, sette milioni e mezzo di senza tetto, centotrentuno città attaccate e parecchie rase completamente al suolo.
Per parte tedesca l’autore afferma che i suoi compatrioti restarono muti al compiersi della catastrofe ineluttabile in quanto dovevano elaborare la loro colpa nazionale per aver seminato morte e distruzione in tutta Europa.
Dunque la letteratura tace per decenni, dice Sebald “indotto ad approfondire la questione del perché gli scrittori tedeschi non abbiano voluto o potuto descrivere quell’esperienza compiuta da milioni di individui che fu la distruzione delle città tedesche”, con poche e rare eccezioni – ma già molti anni dopo – che cita a sostegno della sua tesi: lo stesso Kluge, Hans Magnus Enzensberger, Nossack, Kasack, Heinrich Böll il quale indica nello sradicamento collettivo dei profughi vittime dei bombardamenti delle loro città la smania di viaggiare da cui sono animati ancora oggi i cittadini tedeschi.
Anche se l’analisi rimane alta, come è nel suo rigoroso stile, Sebald non può tacere l’orrore e il raccapriccio nelle città sventrate dalla bombe. Citando Kluge: Alcune zone della città puzzano. Sono al lavoro squadre che vanno alla ricerca di cadaveri. Un odore di bruciato, acre, “immobile” grava sulla città, un odore che in capo ad alcuni giorni verrà sentito come “familiare”.
Gli scritti che compaiono qui sono il frutto di due conferenze tenute a Zurigo nel 1997. In un terzo capitolo si sofferma sugli echi che queste conferenze hanno avuto in tutta Europa e sul deficit di conoscenza che ancora permane su questi fatti, a casa come a scuola, tra i tedeschi.
In un quarto capitolo, Sebald analizza la controversa figura dello scrittore Alfred Andersch, dapprima comunista e sposato con una ragazza ebrea che rinnega per aderire al Reich, poi deportato a Dachau e quindi resistente ma sempre tormentato da ambizione, egoismo, risentimento e astio. L’opera letteraria è il mantello in cui tutto questo è avvolto. Ma la fodera di modesta qualità non la si può nascondere. Scrive il suo biografo, Hans Werner Richter: I piccoli successi per lui erano scontati, non ne teneva particolarmente conto. Il suo obiettivo era la fama, e non la fama ordinaria, che riteneva ormai acquisita.

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