Ho visto “Youth – La giovinezza” di Paolo Sorrentino

Sublime, è la prima parola che mi è venuta in mente, mentre alcune signore sedute dietro di me già lo sbertucciavano. In fondo, capisco. E’ il destino di tutti i capolavori far discutere. Tanto non mi era piaciuto La grande bellezza, altrettanto mi ha entusiasmato Youth – La giovinezza.
I due amici da una vita, nonché consuoceri, Fred e Mick, ottantenni, rappresentano i due diversi modi di accogliere la vecchiaia e di contrapporsi alla giovinezza. L’uno, grande direttore d’orchestra e compositore famoso, si è rinchiuso in una quiescenza dorata, rendendosi persino ostile al mondo. L’altro, altrettanto famoso ma in campo cinematografico, sta per tornare sul set per dirigere l’ennesimo film che ha per protagonista una star coeva. Entrambi, Fred e Mick, prestano orecchio agli acciacchi della vecchiaia (emblematico il quotidiano confronto tra le rispettive minzioni) trovandosi in un centro benessere ospitato in un grand hotel, un falansterio datato sulle alpi svizzere che ospita in prevalenza anziani, ma non solo, in cerca della salute perduta, come il Maradona obeso e sfiatato ma ancora divino mancino, o quanto meno di una ricarica, come Jimmy Tree, un giovane attore che attraversa una fase artistica involutiva.
Mentre Fred rifiuta le pressanti e incessanti richieste di un emissario britannico per tornare a dirigere un’orchestra davanti alla regina Elisabetta, l’iperattivo Mick circondato dai suoi giovani sceneggiatori mette a punto il suo nuovo lavoro. Fino all’arrivo in Svizzera di Brenda Morel (Jane Fonda), la vecchia star su cui ha puntato e che gli comunica che non prenderà mai parte al film.
Questa è l’esile trama su cui si contrappuntano i temi della vecchiaia e della giovinezza, esemplificati dai tanti corpi nudi e seminudi nelle piscine termali e sui prati circostanti, nelle saune e bagni turchi, sui lettini sotto le mani di sapienti massaggiatrici. La sceneggiatura è ridondante e cede solo in alcuni punti, ma il film è sostenuto dalla cura maniacale dei particolari e delle inquadrature, come sempre accade per i film di Sorrentino. Vedere ad esempio la sequenza del Maradona che palleggia a piedi nudi in un campo da tennis con una pallina. Oppure le scene capolavoro che il regista regala ai due attori protagonisti, ripresi singolarmente: Fred/Michael Caine su un declivio dei Grigioni dirige una simbolica orchestra di mucche svizzere con i loro campanacci; Mick/Harvey Keitel – “sono un grande regista di donne” – dopo il naufragio del suo progetto di film vede comparire in un prato tutte le protagoniste dei suoi lavori e ognuna recita una battuta.
Temi e riflessioni a iosa – sui quali qui sorvolo – compaiono in questo film che ci ha ridato il miglior Sorrentino di sempre. Meno amaro e pessimista rispetto a La grande bellezza, ci regala un filo di speranza o quanto meno un barlume di serenità nell’affrontare la vecchiaia. Fred viene congedato dal direttore sanitario con una cartella clinica che ne dimostra la (quasi) piena salute. Non c’è prostata che tenga. Vada, dice il medico, fuori l’attende la giovinezza. E rivediamo il musicista dirigere a Londra le sue Simple Songs. Titoli di coda sull’esecuzione dell’orchestra. Scena sublime. E ci sarebbe tanto altro da dire.

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