Ho letto “Il senso del dolore” di Maurizio De Giovanni

Mi avvicino sempre con circospezione ai giallisti seriali, soprattutto se italiani, per non aggiungere altra carne al fuoco delle mie letture, perché sono già molte le serialità che seguo quasi in tempo reale. Tuttavia mi incuriosisce il nuovo fenomeno degli ‘investigatori locali’ – insuperabile Camilleri, poi Carofiglio e Bari, De Falco e Trieste, Manzini e Aosta, Carlotto e Padova, Recami e il suo tappezziere in pensione a Milano, e potrei continuare all’infinito – vuoi perché mi mettono in connessione con città che conosco o che ho amato, vuoi perché una chance di essere letti bisogna darla a tutti.
Così mi sono avvicinato a Maurizio De Giovanni, cominciando dall’inizio della sua tetralogia sulle stagioni e cioè da Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi (2007, ma già pubblicato l’anno precedente con il titolo Le lacrime del pagliaccio). A oggi il ciclo ‘Ricciardi’ conta una decina di romanzi. L’intuizione felice di De Giovanni è aver collocato le storie nella Napoli degli anni Trenta, aggiungendo quindi al già fertile substrato partenopeo di passioni e storiacce, anche il clima degli intrighi politici del periodo fascista.
In questa inchiesta il commissario Luigi Alfredo Ricciardi della Squadra Mobile della Regia Questura di Napoli deve risolvere il mistero di un assassinio che ha scosso fortemente l’opinione pubblica. Il grande tenore Arnaldo Vezzi è stato trovato con la gola squarciata dal frammento di uno specchio nel suo camerino al Teatro San Carlo, poco prima della rappresentazione dei Pagliacci. E’ il 1931 e Vezzi era amico personale del Duce. Ovvie quindi le pressioni a cui è sottoposto il commissario per risolvere il caso.
Ma Ricciardi aveva capito, ben prima di studiarlo sui libri, che il delitto è la faccia oscura del sentimento: la stessa energia che muove l’umanità la devia, fa infezione e suppura esplodendo poi nell’efferatezza e nella violenza.
Funzionario integerrimo e assai capace a risolvere i casi più difficili, Ricciardi ha una sua peculiarità che lo aiuta nelle indagini. Osservando il volto di chi è morto di morte violenta riesce a coglierne l’ultimo istante di vita e addirittura ascoltarne le ultime parole. E’ un segreto che ha coltivato fin da bambino e che lui chiama il Fatto. E questa volta il volto truccato da pagliaccio di Arnaldo Vezzi è come se gli cantasse un’aria d’opera: Io sangue voglio, all’ira mi abbandono, in odio tutto l’amor mio finì... Così Alfio nella Cavalleria rusticana che nelle rappresentazioni liriche è abbinata e anticipa I Pagliacci e che verosimilmente il tenore stava ascoltando dal camerino in attesa del suo turno di entrare in scena. Alfio, un baritono… E’ nel mondo dell’opera che Ricciardi deve cercare l’assassino: tra i cantanti, gli impresari, le maestranze del teatro, i melomani incalliti. Grande artista sì era Vezzi, ma anche prepotente, intrattabile, calpestava cuori e anime. Si credeva un dio. Molti avevano un buon movente per ucciderlo.
Il Fatto gli aveva insegnato che la fame e l’amore sono all’origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, gelosia. Li trovi in ogni delitto, una volta semplificato all’estremo, eliminati gli orpelli dell’apparenza: la fame o l’amore, o entrambi, o il dolore che generano.
Un intrigo ben raccontato, personaggi molto originali, Napoli oscura e misteriosa. Continuerò a leggere la serie.

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