Ho letto “La vita davanti a sé” di Romain Gary

Sono al terzo libro di questo autore assai complesso (Roman Kacew alias Emile Ajar) di cui non dirò altro avendone già scritto in occasione delle recensioni di “L’angoscia di re Salomone” (30 maggio 2010) e di “Mio caro pitone” (27 giugno 2010).
“La vita davanti a sé” è un libro bello ma non me la sento di aggiungermi al coro di quanti lo considerano un capolavoro. E neppure a quelli che lo definiscono falso e forzatamente commovente. Il romanzo, con cui Gary anzi Ajar vinse il premio Goncourt nel 1975, narra le vicende di Momo (Mohamed), ragazzo arabo nella banlieue di Belleville, figlio di nessuno anzi figlio di puttana come tutti gli altri bambini depositati dalle loro mamme prostitute nella casa di una vecchia collega ebrea, Madame Rosa, che li accudisce con una cura che va ben aldilà del mensile che riceve da ognuna di loro. La donna nutre un affetto speciale per Momo che non l’abbandonerà neppure quando la sua salute declinerà verso l’inevitabile fine.
Due considerazioni. La multietnica Francia degli anni Settanta trova una bellissima rappresentazione nel condominio di Belleville (in qualche modo anticipa Pennac di vent’anni) dove tutti vivono e si aiutano reciprocamente senza badare alle differenze di etnìa e di religione.
Il libro è scritto con uno stile particolare che rispecchia il linguaggio del bambino narrante. Emergono così l’ingenuità e l’innocenza dell’infanzia che contrastano con la durezza e la scafatezza acquisita per le strade di Parigi, i sogni e le speranze che si trasformano in incubi e paure. Per Momo le puttane sono «gente che si difende con il proprio culo», e «gli incubi sono i sogni quando invecchiano»
Aggiungo che da questo libro fu tratto un film (1977), regia di Moshé Mizrahi, che ottenne l’Oscar come miglior film straniero, con Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, a sua volta premio César come miglior attrice.

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