“Il rumore del tempo” di Julian Barnes, Dmitrij Šostakovič e il Potere

Nei tempi andati, un figlio poteva trovarsi a pagare le colpe del padre, o della madre in effetti. Al giorno d’oggi, nella società più progredita del pianeta, erano i genitori a poter pagare le colpe di un figlio, insieme a zie, zii, cugini, suoceri e cognati, colleghi, amici e perfino l’uomo che distrattamente ti rivolgeva un sorriso uscendo dall’ascensore alle tre del mattino.
Era il 26 gennaio 1936 quando al teatro Bol’soj venne eseguita l’opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk ispirata a un romanzo breve di Nikolaj Leskov. L’opera di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič era già nota e rappresentata in tutto il mondo, da Cleveland a New York, dall’Argentina alla Svezia. Ma quella sera Stalin volle assistere alla rappresentazione. Se ne andò infuriato dopo il terzo atto bollando come caos la musica che aveva ascoltato. Due giorni dopo la Pravda in terza pagina la definiva come inquieta e nevrastenica e Šostakovič come nemico del popolo. Era iniziato lo stigma politico nei confronti del grande compositore. Continua a leggere

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“La spiaggia d’oro” di Raffaello Brignetti, l’ermetico romanzo premio Strega 1971

In genere non amo molto i premi letterari. Quando ho scoperto l’esistenza del Premio Elba ho dato una scorsa all’albo d’oro e ho visto autori di grande rispetto. Non ne sapevo nulla fino a quando è mancato Ernesto Ferrero, grande amico dell’Elba e di Napoleone, nonché ultimo presidente del premio letterario. Dal 1984 al nome Elba è affiancato quello di Raffaello Brignetti (Isola del Giglio 1921 – Roma 1978), autore oggi un po’ dimenticato. Nel 1967 vinse il Premio Viareggio con Il gabbiano azzurro, nel 1971 il Premio Strega con La spiaggia d’oro. Come si capirà dai titoli c’è molto mare nelle sue opere. D’altra parte era nato al Giglio ed è vissuto molto all’Isola d’Elba. In particolare è stato segnato da un’infanzia trascorsa in un faro di cui suo padre era il custode. Brignetti è stato giornalista e collaboratore di varie testate fino al 1961, quando ebbe un incidente stradale che lo rese paralizzato. Con il ritorno all’Elba, con base a Marciana Marina, iniziò la sua carriera letteraria.
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“Il ritorno del soldato”, opera prima di Rebecca West

Scendeva un crepuscolo che era come una malinconia sulla terra.
Torno a leggere Rebecca West dopo aver letto La famiglia Aubrey, primo romanzo dell’omonima saga. Quasi quarant’anni prima aveva scritto quest’opera incentrata sui guasti prodotti dalla Prima Guerra Mondiale. Era il 1918, ultimo anno del conflitto, la popolazione maschile era decimata. Chi non era caduto nelle trincee era tornato a casa minato per sempre nel fisico o nella mente. Uno di questi è Christopher Baldry, possidente con grande villa di famiglia nella campagna inglese, Baldry Court, una moglie, Kitty. Prima della guerra hanno perso di malattia il loro unico bambino, Oliver. Con loro vive da sempre la cugina Jenny, che scopriremo essere sempre stata innamorata di Chris. La vicenda è narrata in prima persona proprio da lei. Del capitano Baldry, impegnato sul fronte francese, non si hanno più notizie. La vita scorre quasi asettica nella grande casa. Continua a leggere

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“Il libro delle illusioni” di Paul Auster e le cinque vite di Hector Mann

Aspettati l’inaspettato, dicono, ma quando l’inaspettato è successo, l”ultima cosa che ti aspetti è che succeda un’altra volta.
Credo che sia tra i romanzi più belli di Paul Auster. Lo scrittore di Newark inventa dei personaggi che sono più veri di quelli veri. Il primo è David Zimmer, l’io narrante del libro. È un professore universitario di un certo successo che vive nel Vermont. Lo troviamo alla fine degli anni ’80 depresso e disperato per la perdita della moglie e dei due figlioletti in un incidente aereo. Messosi in aspettativa, annega il suo dolore nell’alcol. Una sera davanti alla tv incappa in un filmetto dell’epoca del muto, diretto e interpretato da un attore misconosciuto, Hector Mann. Il film comico riesce a farlo sorridere e a svegliarlo dal suo torpore. Incuriosito dal personaggio, si mette alla ricerca delle sue tracce. Esiste molto poco, ma Zimmer riesce a rintracciare alcune pellicole di altri film disseminate in cineteche americane ed europee e decide di visionarle. Imbottito di psicofarmaci riesce a vincere il trauma del volo e a recarsi fino a Londra e Parigi. Continua a leggere

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“Cucinare con il forno a onde mesmeriche”, un divertissement di Nicola Gallino

Mi sono avvicinato al libro di Gallino e ne sono stato respinto. Perché ho commesso un errore. In sostanza sono caduto nella sua trappola, cioè andare a cercare la veridicità delle fonti, l’approfondimento di ogni citazione, come faccio quando mi trovo di fronte a un saggio. Ma facendo così si finisce in un vicolo cieco e non si viene a capo di nulla. Insomma, ho compiuto un inutile fact checking personale. E già mi immaginavo le sghignazzate di Nicola alle mie spalle. Non si può competere con il dotto (senza r finale) Gallino. Così ho abbandonato il libro per un po’ e l’ho ripreso più avanti con un approccio più laico. Allora ho cominciato a divertirmi, restando dietro alle ammiccatine dell’autore. Gallino prende alcune realtà storiche, altre ne costruisce ex post, poi mescola il tutto e il risultato fa sì che si confonda il vero dall’apocrifo. Il libro è pieno di storie così (astenersi chi crede di trovarvi ricette di cucina fantasiose). Operazione pericolosissima se ragioniamo in termini di revisionismo storico, ma strumento divertente se è nelle mani dell’erudito Gallino.
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“Almost Blue” di Carlo Lucarelli, omicidi al suono del be-bop

Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po’ di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco.
Gli omicidi del serial killer sono un po’ come sfocati o sbiaditi, forse volutamente per far risaltare meglio la figura del ragazzo cieco dalla nascita, Simone. Si sa che la mancanza di un organo di senso fa esaltare al massimo gli altri. In questo caso l’udito, ma poi si vedrà nel corso del thriller anche l’olfatto. Infatti Simone trascorre le sue giornate chiuso nella sua stanza a passare in rassegna in diretta con uno scanner tutte le voci della sua città, Bologna, con l’unica compagnia di un disco di Chet Baker, Almost Blue, di cui percepisce anche i respiri. È così che ha imparato a conoscere e riconoscere le voci, attribuendo loro quasi dei connotati fisici e morali, e ad ogni voce fa corrispondere un colore. È così che ha intercettato qualcosa di strano, la voce di un predatore seriale, un killer che sta preoccupando la giovane detective, Grazia Negro, mentre i suoi capi e colleghi si rifiutano di ammettere che a Bologna ci possa essere un assassino compulsivo.
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“Sul tetto c’è Mendelssohn” di Jiří Weil, una statua da abbattere

«Capo, sui piedistalli non ci sono scritte. Come facciamo a riconoscere questo Mendelssohn?»
Era un bel casino. Nessuno gli aveva spiegato che aspetto avesse la statua di quell’ebreo.
L’incipit del libro è straordinario e anche divertente. Il gerarca nazista Reinhard Heydrich, il regista dell’operazione denominata ‘soluzione finale della questione ebraica’, nel 1942 si trovava a Praga e passando davanti al Rudolfinum, l’auditorium nazionale della musica, notò che tra le statue degli insigni musicisti che ornavano il palazzo alla sua sommità c’era anche quella del noto compositore ebreo Felix Mendelssohn. Evidentemente Heydrich possedeva una buona cultura musicale per riconoscerlo, non come i suoi sottoposti che aveva incaricato di rimuoverla perché era un insulto alla razza ariana. Inizia così una grottesca catena a sbarazzarsi dell’ingrato compito, dal SS-Reichsführer fino all’ultimo SS-Rottenführer e giù giù agli umili dipendenti del comune di Praga.
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“La famiglia Aubrey” di Rebecca West, prima parte della saga

Per la prima volta fui testimone del miracolo operato sui morti, che passano automaticamente dalla parte della ragione, anche se prima erano da quella del torto.
Mi sono avvicinato a Rebecca West quando ho letto il bel libro di Uwe Neumahr, Il castello degli scrittori. Uno dei capitoli è proprio dedicato alla scrittrice inglese, inviata come reporter al processo ai criminali nazisti nel 1945 a Norimberga. Le sue corrispondenze sarebbero poi confluite nel volume Serra con ciclamini, pubblicato l’anno dopo. Neumahr attribuisce alla West, il cui vero nome era Cicely Isabel Fairfield, comportamenti a dir poco esuberanti durante le settimane del processo. In effetti ebbe una relazione con uno dei giudici, cosa assai sconveniente in quel contesto. Mi ha incuriosito il suo rapporto con H.G.Wells, di ventisei anni più vecchio, da cui ha avuto un figlio nel 1914, non tanto questo aspetto, quanto per i loro mondi letterari agli antipodi. Prima del conflitto aveva all’attivo diversi romanzi, reportage giornalistici, libri di viaggi. Successivamente si è spostata verso quella che ritenevo letteratura rosa, come la saga della famiglia Aubrey. Continua a leggere

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“La casa delle tenebre” di Jo Nesbø, un horror che ricorda Joe Lansdale

Ho paura delle altezze. Ho paura del buio. Ho paura dell’acqua. Ho paura degli incendi. E ho paura dei telefoni. Ma soprattutto ho paura di aver paura.
Per la prima volta Jo Nesbø si cimenta con un romanzo horror. Il risultato mi pare sufficiente anche se non entusiasmante. Il romanzo è suddiviso in tre parti, ognuna delle quali ribalta la situazione precedente. A me ha ricordato molto da vicino Joe R. Lansdale, non quello del ciclo di Hap&Leo ma la trilogia del Drive-In. La casa delle tenebre si svolge nell’immaginaria cittadina di Ballantyne e ha per protagonista il quattordicenne Richard Elauved. Il ragazzo ha perso entrambi i genitori in un incendio ed è stato affidato a una coppia di zii. È un ragazzo intelligente, grande lettore, ma asociale e per questo viene emarginato dai compagni di scuola. Per contro si vendica con qualche episodio di bullismo, indirizzato soprattutto verso i più deboli. Trova un po’ di comprensione al suo modo di essere in Karen, la bellona della classe, con cui riesce a confidarsi.
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“Tre vite una settimana” di Michel Bussi o dell’inverosimiglianza

Avevo scritto in precedenza che non avrei più letto Bussi, soprattutto per le esagerazioni contenute nei suoi libri. Passi un eccesso di fantasia nei romanzieri, ma per lui è troppo. Ora ci sono ricascato. E ogni volta ti ripeti “ma dai, vabbè, non è possibile!”. Eppure la lettura scorre e pagina dopo pagina vuoi vedere dove vuole arrivare. Ciò che apprezzo in Michel Bussi è la localizzazione delle sue storie. Tutti luoghi ben precisi, tutta la Francia naturalmente, ex colonie comprese, ma anche il nord Africa, il sud America, l’Indonesia, il Canada. E ogni volta si apprende qualcosa. Questa volta fa ritrovare un cadavere a Bogny-sur-Meuse, nelle Ardenne dove quattro picchi rocciosi detti i Quattro figli di Aimone, ci fanno scoprire una leggenda della tradizione cavalleresca francese. Il romanzo inizia e finisce lì, in un belvedere di fronte a quella montagna simbolica. Ma si sviluppa anche in altre località della Francia, ad esempio a Charleville-Mézières, patria del poeta Rimbaud e di frasi dalle sue liriche è infarcito il testo.
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