“L’orsacchiotto” di Georges Simenon, un giallo psico-ginecologico

Arrivato a quarantanove anni Jean Chabot ha tutto ciò che un uomo può desiderare. È un affermato ginecologo con clinica di proprietà, una docenza universitaria e collaborazioni con diversi ospedali. Vive in un appartamento di dodici stanze con moglie e tre figli, due femmine e un maschio, ma nessuno ha seguito le sue orme. Ha quattro persone di servizio e tre automobili in garage.  Anzi, nell’appartamento si è ricavato una dependance riservata in cui riceve per le visite private e ci dorme. A volte con la segretaria che gli gestisce l’agenda e gli risolve tutte le rogne. Ma non rinuncia alla famiglia e ogni giorno a pranzo pretende che tutti siano riuniti attorno al desco. In fondo con il suo lavoro mantiene tutti più che agiatamente e può pretendere qualcosa da ognuno di loro. Con la moglie non ha rapporti sessuali da tempo, ma si comporta da perfetto marito nelle frequentazioni in società. Negli anni ha intrattenuto quel certo tipo di rapporti con allieve, infermiere e anche pazienti. Non ne lascia scappare una… secondo il suo piacimento. Se qualcosa sfugge poi c’è la segretaria Viviane che copre e nasconde tutto. Come quella volta dell’Orsacchiotto, un nomignolo che aveva dato a una ragazza alsaziana che da poco prestava servizio alla clinica come inserviente. Una notte il professore era entrato nella stanza del personale di guardia e aveva visto quella ragazza, rosea e cicciottella come un orsacchiotto, che riposava seminuda nella brandina.
L’orsacchiotto! Quel nomignolo, che gli era parso così tenero, ora suonava atrocemente ironico. Chabot si era intrattenuto con lei alcune notti, poi la ragazza era scomparsa. Era sparita da un giorno all’altro, poi una mattina si era presentata alla clinica per vederlo. Il ginecologo aveva osservato dalla finestra mentre la segretaria-amante la respingeva. Apprende che era stata licenziata e che in seguito era stata ripescata nella Senna. Dall’autopsia era risultata incinta.
Poi per il luminare della ginecologia parigina era cominciata la discesa agli inferi. Durante un parto aveva avuto un inquietante momento di assenza.
Era come sdoppiato. Una parte di lui seguiva il travaglio, eseguiva in gesti di prammatica, mentre in un’altra parte della sua testa turbinavano pensieri angosciosi. Era convinto di aver dimenticato qualcosa, ricapitolava la successione dei suoi gesti, arrivò a chiedersi se si fosse realmente insaponato le mani e le braccia.
Si accorge di aver perso in pochi minuti la fiducia in sé stesso e la fiducia dei suoi collaboratori, oltre che della donna che stava assistendo.
Chabot beve, Chabot è insicuro. Da mesi ormai ha in mente qualcosa e si prefigura nella testa ciò che potrebbe accadere. Immagina l’interrogatorio dei testimoni, a quale tragico evento Simenon lo rivela solo alla fine. Di certo è che da qualche tempo Chabot accarezza una pistola che tiene sempre in tasca.
Non era successo niente di tragico; nessun altro medico avrebbe fatto meglio di lui. Come avrebbe testimoniato, se l’avessero chiamata alla sbarra, la levatrice che lavorava con lui da più di dieci  anni?
L’orsacchiotto (L’Ours en peluche, 1960) è il classico Simenon che lascia col fiato sospeso. Che andrà a finire male lo si intuisce fin dalle prime righe, resta da capire che cosa e perché. Chabot è un uomo ‘doppio’ che si nasconde dietro una delle tante varianti stile ‘vizi privati e pubbliche virtù’. Come per tante opere di Simenon nel 1994 ne è stato tratto un film di produzione italo-francese per la regia di Jacques Deray e Alain Delon nel ruolo del ginecologo.

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