“La sorella” di Sándor Marai e la sofferenza nella musica

«La ragione è nulla. La passione è tutto. Forse è quello che Goethe chiamava Idee, e così Platone e gli altri, i quali sapevano che il senso della vita è la passione che splende dietro le forme. La passione è più del piacere…».
Sgombro subito il campo da eventuali equivoci sul titolo. Nel romanzo non c’è alcuna donna che condivide i genitori con qualcuno. Sorella è l’appellativo riservato alle religiose e qui se ne incontrano quattro, tutte infermiere nella clinica di Firenze dove viene ricoverato il protagonista, il famoso pianista ungherese Z. Sono Cherubina, Carissima, Mattutina e Dolorissa e si alternano con fare molto professionale al capezzale del malato. A Firenze il musicista era arrivato su invito del governo italiano, auspice l’ambasciatore italiano a Budapest, un uomo anziano e malinconico, la cui giovane moglie E. si dice fosse diventata l’amante di Z. Il legame c’era, la coppia frequentava l’artista negli ambienti mondani della capitale, ma il rapporto non era mai diventato quel ménage à trois che la gente diceva. Perché la peculiarità della calunnia è di riuscire a diventare reale anche quando non ha nessuna base di realtà.
Quindi era meglio per tutti allontanare quel grande pianista dalla donna, con la scusa di una esibizione italiana. Erano i tempi della seconda guerra mondiale, il vagone letto che ospitava Z. ha attraversato i confini di diversi paesi in guerra, infine è giunto a Firenze dove il pianista è stato ricevuto con tutti gli onori dai rappresentanti del governo fascista. Intanto, sul treno, aveva messo a punto un programma di musica polacca, tedesca e russa che si contrapponeva al rantolo di morte che l’Europa in guerra pareva volesse soltanto ascoltare.
Quello che segue sono le pagine sublimi dello stato d’animo del maestro prima e durante il concerto. Sono tanti i romanzi che trattano la musica dal di dentro, dalla sua essenza. Qui è Z. che racconta in prima persona le sue vicende attraverso un manoscritto fatto pervenire  a un amico occasionale, uno scrittore, che aveva conosciuto in una località termale montana. Artificio letterario tutt’altro che insolito, quando il romanzo sembrava avesse preso una direzione diversa. In quel tetro alberghetto in mezzo ai monti della Transilvania, si era nel periodo di Natale e il maltempo bloccava ogni attività, il maestro e lo scrittore avevano assistito al suicidio di una matura coppia clandestina. Anzi, era stato proprio il musicista con il suo orecchio assoluto a percepire attraverso le sottili pareti della stanza il flebile ultimo rantolo della donna e a dare l’allarme. Esperienza che aveva fortificato il rapporto tra i due intellettuali. Ma, come detto, questo ci porta fuori strada.
Il romanzo è incentrato sulla malattia e sul dolore. Z. ha un malore dopo il concerto e viene subito ricoverato in clinica a Firenze. Non solo è curato, ma è accudito con estrema attenzione, in fondo è un personaggio famoso e non solo l’Italia, ma l’intera comunità musicale mondiale resta con il fiato sospeso. Al suo capezzale si avvicendano luminari giunti da fuori per tentare di capire quale virus lo abbia colpito. Due medici notte e giorno e le quattro suore di cui sopra svolgono un ruolo fondamentale. La malattia dura mesi e mesi, i dolori sono atroci, gli antidolorifici sempre più forti, fino all’assuefazione agli oppiacei. Il pensiero di E. resta sullo sfondo, molto lontano. Z. è isolato dal mondo.
Circa a metà del romanzo ho trovato la più straordinaria descrizione del dolore che abbia mai letto tra le pagine di un libro. La riporto per intero.
A volte anche la belva o il seviziatore si stancano, si innervosiscono, sbadigliano, si annoiano. Così anche il dolore si acquatta, perché il malato raccoglie tutte le forze e urla contro il carnefice che ormai ne ha abbastanza, che deve smetterla. In questi frangenti resta sornione in silenzio, se la svigna da qualche parte, si infratta in uno dei suoi nascondigli. Perché, per il resto, è curioso – come ho avuto modo di sperimentare – ed esplora ogni angolo del territorio dove  si è insinuato, con la vivace astuzia e la lucida accortezza di un abile scassinatore. Ora bussa da questa parte, ora abbassa una maniglia un po’ più in là. Gli interessa tutto, gli occhi, le orecchie, lo stomaco, la regione cardiaca. Improvvisamente si avventura dalle parti delle viscere, poi cerca dimora negli arti. Alla fine si annoia, e per un po’ scompare come se fosse andato via. Dove si nasconde in questi momenti?…
Sandor Márai ha pubblicato La sorella nel 1946, a guerra finita. A mio parere, nella malattia e nel dolore di Z. vedo una metafora dell’Europa che esce frastornata dal conflitto mondiale. Solo in apparenza tutto è passato, ma nulla sarà più come prima. Dopo mesi e mesi di sofferenza anche il pianista è guarito. È ristorato nel fisico e nella psiche, ma gli è rimasto un vulnus che gli impedisce di proseguire nella sua professione. Anulare e indice della mano destra restano per sempre paralizzati. La sua vita è cambiata. Non dovrà più domare quella bestia nera e feroce che è il pianoforte.
Di più ancora. Nel romanzo vedo l’annullamento del potere taumaturgico della musica. La musica dovrebbe significare benessere, che la si esegua o la si ascolti. E soprattutto il suo ascolto dovrebbe essere una cosa sacra e unire gli animi più delle religioni. Invece è stato più volte violentato…  Dubrovka di Mosca, Bataclan di Parigi, Crocus City Hall di Mosca.
Era quello il momento in cui ‘cominciò’, in cui la mia vita si separò da tutto quello che precedentemente ne aveva costituito la condizione e il senso, in cui qualcosa in me morì, ed io allo stesso tempo rinacqui, come se fossi morto per la vita e nato per la morte. 

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