“Il dono di Antonia” di Alessandra Sarchi e una questione delicata dei nostri tempi

Nessuno ti racconta il suo passato se prima non ti sei guadagnato la fiducia, o anche solo la credibilità.
Una lettura lontana dalle mie scelte abituali ma che ho dovuto fare per corrispondere alle regole di un gruppo di cui faccio parte. Sono sempre scettico sulla letteratura italiana contemporanea, ma poi chissà, un autore diverso dai soliti potrebbe riservare delle sorprese. Invece no. Il dono di Antonia mi delude sotto il profilo letterario e mi ha interessato pochissimo per quanto riguarda i contenuti. Alessandra Sarchi, cinquantenne emiliana, ha scritto altro e vinto anche dei premi, ma non credo che per il momento le darò qualche altra chance.
Il romanzo si snoda nella nebulosa femminile se non femminista, il tema, che inizialmente sembra essere il difficile rapporto tra madre e figlia adolescente che sta scivolando nell’anoressia come rivolta, dopo qualche capitolo si palesa essere la fecondazione eterologa con ovodonazione e le problematiche psicologiche connesse.
Antonia vive sulla collina di Bologna dove ha un’aziendina casearia con annesso allevamento di capre. La figlia Anna ha problemi di alimentazione dovuti probabilmente al suo tentativo di svincolarsi dalla sfera materna. Antonia frequenta un gruppo di madri che hanno problemi analoghi e con Alice e Sara si racconta e si confronta.
Pensò con un po’ di amarezza che nell’età adulta, più della possibilità della gioia, era la condivisione della sofferenza ad avvicinare le persone e, trattandosi di sconosciuti, implicava un certo azzardo.
Questa parte iniziale del romanzo è un po’ avulsa dal resto della storia, se non per delineare gli altri problemi di Antonia, in primis l’invecchiamento e la trasformazione di un corpo che perde le taglie giovanili, nonostante l’intensa attività fisica e le continue vasche nella bella piscina nel giardino di casa. Ventisei anni prima, Antonia, studentessa non ancora ventenne, aveva vissuto qualche tempo negli Stati Uniti e stretto amicizia con Myrtha, una donna sposata e un po’ più grande di lei. La confidenza tra le due donne era diventata tale che Antonia non aveva esitato a donarle un ovulo affinché potesse diventare madre. Poi era rientrata in Italia, si era sposata e avuto Anna, nel frattempo aveva interrotto i collegamenti con Myrtha che continuava a inviarle inutili missive e fotografie del suo piccolo Jessie. Forse il suo dono era stato un colpo di testa di cui in seguito non si era più sentita all’altezza.
…cos’era la vergogna? Il sentimento che accompagna qualcosa che si è commesso o che è capitato senza averne il pieno controllo, senza che si potesse dire lo rifarei.
Beninteso, il marito di Antonia era al corrente di quanto aveva fatto, Anna no e neppure Jessie a cui Myrtha ha rivelato di essere stato generato il quel modo soltanto quando ha saputo di essere malata terminale per un tumore al cervello.
Ventisei anni dopo Jessie presenta il conto e vuole andare a Bologna per conoscere quella generosa donatrice di ovocita.
Jessie controlla l’ora, in Italia devono essere le dieci di sera, spedisce l’email e si prepara ad aspettare, come un naufrago su un’isola che abbia infilato un messaggio dentro una bottiglia senza sapere se avrà mai risposta, se da quella città medievale con le torri di mattoni rossi e lunghe file di portici bassi – è così che vede Bologna sul web – arriverà mai un segno.
Come accoglierlo e cosa raccontare a Anna? Il paradosso di una figlia che non vuole esserlo e di un figlio che non è figlio e a cui ha dato la vita. Metà del romanzo è narrata dal punto di vista di Jessie, le sue paure, le sue aspettative. Ma Antonia lo accoglie bene, dapprima in centro a Bologna e quando si sente pronta lo porta in fattoria a conoscere la famiglia. Il finale è un po’ troncato, manca l’incontro tra Jessie e Anna dopo che si sono salutati.
Tema alquanto complicato su cui nel merito non mi esprimo, viste le implicazioni morali, sociali, giuridiche legate al rapporto con i donatori. Nel romanzo è tutto facile, ma più in generale ci sono la questione delle malattie a trasmissione genetica, i rischi di consanguineità e varie altre implicazioni non considerate.
I figli sono di chi li cresce, di chi li educa, di chi li sopporta e di chi li rende autonomi.

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