Ho letto “Il castello” di Franz Kafka

“E’ vero”, disse K., “non bisogna giudicare in anticipo. Per il momento non so altro del Castello se non che lassù sanno scegliersi l’agrimensore giusto”.
Se non fosse un termine ormai consunto per il troppo uso improprio – anch’io confesso di averne abusato nella mia vita – la prima definizione che mi viene in mente a proposito di questo libro è ‘kafkiano’. Ma sarebbe un esercizio sterile, oggi, voler ricondurre questa parola al suo significato originario, cioè ‘di Kafka’.
La seconda considerazione è che letto di questi tempi – per me alcuni decenni dopo “Il processo”, “La metamorfosi”, “I racconti” – il povero agrimensore K., nell’epoca dell’assalto all’art.18 e del tormentone sul “posto fisso noioso tanto più se vicino a mamma e papà”, fa addirittura tenerezza.
Per quasi un secolo la critica (il libro fu pubblicato postumo nel 1926) ha interpretato “Il castello” in vari modi, in chiave marxista, secondo la psicanalisi o richiamando le radici ebraiche dell’autore. A me piace invece avvicinare la figura tormentata dell’agrimensore al mondo del lavoro odierno e alla burocrazia che tuttora, nonostante il passaggio di Brunetta alla Pubblica Amministrazione, ancora maramaldeggia sull’individuo.
K. vorrebbe il lavoro per il quale è stato chiamato al castello, ma proprio non gli riesce di farsi ricevere. Il castello e i suoi burocrati restano per lui qualcosa di inespugnabile. Per sette giorni staziona nel villaggio ai piedi del castello, ingegnandosi per incontrare un funzionario, un segretario, anche un semplice messaggero e far valere le sue credenziali. Riesce poi a farsi ricevere dal sindaco, ma soltanto per scoprire che la sua chiamata al castello è stata un errore e di un agrimensore non hanno bisogno. Gli viene offerto un posto da bidello che K. accetta, sempre sperando nell’incontro risolutore.
K. sapeva di non essere minacciato da una costrizione reale, non questo egli temeva, e tanto meno qui, ciò che lui temeva davvero era la potenza dell’ambiente scoraggiante, dell’abitudine alle delusioni, la potenza degli influssi impercettibili di ogni momento, eppure bisognava avere il coraggio di lottare proprio contro tale pericolo.
Le uniche persone che gli danno retta sono le più umili: qualche sguattera arrivista e disinibita, un vetturino, un modesto aiuto calzolaio che vorrebbe fungere da messaggero con il Castello e nella cui casa l’agrimensore trova ospitalità quando tutti lo rifuggono. Questa famiglia è emblematica dell’ostracismo che colpisce chi osa mettersi contro l’apparato: una delle figlie ha sdegnosamente rifiutato le ‘avances’ di un funzionario! Così va la vita nel villaggio che è alle dipendenze del Conte West West: remissività assoluta verso le gerarchie, prepotenza sui sottoposti, bieca burocrazia.
L’agrimensore K. è un solitario, uomo di cultura ma timido e ingenuo, portato a fidarsi degli altri.
La gente del villaggio che lo mandava via o che aveva paura di lui gli pareva meno pericolosa, perché almeno si limitava a risospingerlo verso se stesso, lo aiutava a tener raccolte le sue forze.
Kafka lascia il romanzo incompiuto. Alla fine del manoscritto K. è a casa del cocchiere Gerstacker, che gli offre un riparo e forse un lavoro. Qualcuno ha provato a ipotizzare nella parte mancante la morte di K. per sfinimento, salvo avere poi una sorta di soddisfazione postuma.
Il sindaco: “Ma non l’annoia questa storia?”
“No” disse K., “mi diverte”.
Al che il sindaco: “Non gliela racconto mica a scopo di divertimento”.
“Mi diverte solo per il fatto” disse K. “che così mi faccio un’idea del ridicolo intrico che in certi casi decide l’esistenza di una persona”.

P.S. Pare che “Il castello” abbia influenzato non poco Dino Buzzati nello scrivere “Il deserto dei Tartari”. A pensare bene, l’immagine della Fortezza Bastiani è speculare e rovesciata rispetto al Castello, così come la situazione del Tenente Drogo, nell’interminabile attesa dei tartari, lo è rispetto alla disperata attesa di una legittimazione di K. da parte del Castello. Un logorìo che purtroppo conosco bene.

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