“La finestra dei Rouet” di Georges Simenon, il dramma della solitudine

Dominique ha accostato le persiane lasciando una fessura verticale di qualche centimetro da cui può guardare le case di fronte; ai due lati di quell’apertura, che lascia filtrare un sole cocente, tra le stecche di legno brillano le fessure orizzontali, più sottili.
Povera Dominique, che vita desolata. Dalla morte di suo padre, un ex generale autoritario ed egoista, è rimasta sola nel piccolo appartamento di rue du Faubourg Saint-Honoré. Non se la passa bene economicamente e allora ha dovuto affittare una camera a una giovane coppia, i Caille, sfaccendati e goderecci, e tirare avanti con quel piccolo introito. È una estate rovente a Parigi. Ha quasi quarant’anni e un fisico ancora asciutto, ma non ha mai conosciuto un uomo. I pochi parenti, zii e cugini, sono sparsi per la Francia, dalla Costa Azzurra alla Normandia. Il suo unico passatempo è osservare senza essere vista, attraverso le fessure delle persiane, gli appartamenti della casa di fronte. Tutti, dalle mansarde ai negozi a livello strada. In particolare la sua attenzione è concentrata sulla ricca famiglia Rouet, i due vecchi al secondo piano e il loro figlio Hubert che vive nell’alloggio al primo piano con la moglie Antoinette. La vecchia è quasi immobile per l’obesità, ciononostante riesce a comandare a bacchetta e a controllare il marito, imprenditore ancora in attività e libertino impenitente. Il figlio giace allettato da tempo, bisognoso di cure assidue. Antoinette l’ha sposato per i soldi e non vede l’ora di liberarsene. Dominique assiste impotente all’ennesima crisi dell’uomo e vede la moglie accorrere in soccorso con la medicina e versarla in una pianta anziché passargliela. Quando è certa della sua morte, Antoinette avverte la suocera.
Dominique vive la scena. Vi prende parte, una parte attiva. Sa.
Invia due lettere anonime alla vedova, prima cita solamente il nome scientifico della pianta, nella seconda missiva è più esplicita. Il suo scopo è incontrarla, perché in fondo la ammira e invidia la piega disinvolta che ha preso la sua vita. Per questo la segue, la spia anche senza dissimulare troppo, nei bar, nei locali da ballo, negli alberghi dove incontra i suoi amanti. Per il resto la vita di Nique-Nique, come la chiamavano da bambina, non cambia, sempre a rammendare i suoi vestiti logori e a cucire calze bucate e suo malgrado ad ascoltare la coppia dei suoi affittuari che copulano tutto il giorno nella stanza accanto. Intanto i risparmi lasciati dal padre stanno scemando, spesso è costretta a saltare i pasti o a contrattare con i negozianti pochi grammi di cibo. La sua ossessione si sposta poi sul vecchio Rouet, lo pedina nel suo peregrinare nei vicoli sordidi attorno a Les Halles alla ricerca di prostitute.
Quando i giovani Caille le comunicano che liberano la camera perché lui ha trovato un lavoro e ora avranno un appartamento tutto loro, a Dominique crolla il mondo attorno, o meglio si spezza quel tenue filo che la teneva ancora legata a questo mondo. Non ha più voglia di cercare altre persone e si lascia andare senza recare disturbo ad alcuno. Per il fallimento della sua vita ingerisce una dose letale di sonniferi dopo aver indossato la sua camicia da notte migliore e cosparso il letto di petali di rose.
Fra tre mesi avrà quarant’anni, sarà vecchia; di sicuro la gente la considera già una zitella, eppure lei sa di avere il corpo di una bambina, di non essere cambiata, di essere giovane e intatta dalla testa ai piedi e fino in fondo al cuore.
Storia tristissima di solitudine e disperazione. Il romanzo non ha nulla del giallo a cui Simenon ci ha abituati. Fu scritto nel 1942 e pubblicato nel 1945. Della Francia occupata dai nazisti in quegli anni non c’è traccia.

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