Le diapositive proiettate sul fondale sono lasciate solo all’immaginazione. Ma non è difficile farlo, tanto sono nitide le fotografie musicali dei singoli personaggi cantati da Gipo. Ci sono “gadan” e “carampane”, improbabili bellezze nordiche e solitari “ruscun ‘d la Fiat” così grigi che si confondono con lo smog. Il recital che Gipo Farassino propone al teatro Alfieri, fino a domenica 23 ottobre, è un ‘amarcord’ intenso e struggente di una Torino che non c’è più e se resiste ancora è cambiata molto. È un po’ la sua autobiografia: nato al 6 di via Cuneo, borgo Aurora, orgogliosamente stretto tra barriera Milano e Porta Pila, come tutte le periferie di Torino abitato da giovani cresciuti tra piole e atmosfere nebbiose, le case di ballatoio con la biancheria stesa. Nella “Premiata Galleria Bertoldo” si snodano cinquant’anni di successi dello chansonnier torinese che di tanto in tanto imbraccia la chitarra – o meglio la “fruia” – oppure accenna qualche passo di tango o di boogie, per la gioia di un pubblico che non è folto ma è caldo e affettuoso e da cui si congeda regalando accorati bis, come “Montagne dël mè Piemont” e “Avere un amico”, forse il suo maggior successo in italiano.
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