“I morti” e “Le ultime lune”, due letture per Natale

Tendenzialmente ho il Natale malinconico. Da circa quindici anni sotto le feste rileggo sempre un paio di libriccini. Sempre gli stessi. Forse è un modo per avvicinarmi alle festività senza lasciarmi coinvolgere dall’atmosfera festaiola. O forse è un modo per esorcizzare il tempo che passa inesorabile e la vecchiaia che si avvicina. Perché è di questi temi che trattano le mie due letture.
“I morti” è un racconto di James Joyce inserito in “Gente di Dublino” (The Dubliners – 1914) e ora ripubblicato singolarmente da Marsilio. Nel 1987 John Huston ne aveva tratto uno splendido film, il suo ultimo film, una sorta di testamento artistico e di vita. Non parla espressamente di Natale, ma è ambientato in inverno, c’è una festa da ballo dalle vecchie zie, c’è da tagliare l’oca, il prosciutto, il pudding, il discorso da fare, c’è soprattutto la neve che copre i cancelli, i monumenti, i giardini.
Una leggera frangia di neve gli si era adagiata a mo’ di mantellina sulle spalle e di mascherina sulla punta delle soprascarpe; e mentre i bottoni scricchiolavano nel passare attraverso le asole irrigidite, una fredda e fragrante aria esterna si sprigionava dalle pieghe e dalle aperture del cappotto.
Come in tutte le feste una linea sottile separa la gioia dalla tristezza: il protagonista, Gabriel Conroy, tiene il discorso ufficiale durante la cena, “sempre, in riunioni come questa, i tristi ricordi affiorano alla nostra mente: memorie del passato, della giovinezza, dei cambiamenti, dei visi scomparsi di cui sentiamo stasera la mancanza”. Senza volerlo, il discorso di Gabriel – ma ancora più l’aria di una canzone ascoltata alla festa – evoca nella moglie Gretta il ricordo doloroso di un ragazzo, forse amato, morto troppo presto. Un ricordo dal quale Gabriel si sente escluso. Pensava come colei che gli giaceva accanto avesse per tanti anni custodito gelosamente nel cuore l’immagine dell’innamorato…
L’epifania del protagonista conclude mestamente il racconto. A uno a uno sarebbero diventati tutti delle ombre. Meglio passar a miglior vita baldanzosamente, nel pieno fulgore di qualche passione, piuttosto che appassire e spegnersi lentamente di vecchiaia. Mentre la neve è come il sonno eterno che ricopre ogni cosa. La sua anima svanì lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti.
Gli stessi temi ritrovo in un bellissimo testo teatrale di Furio Bordon, “Le ultime lune”, plurirappresentato. Recitato da tantissimi anni da Gianrico Tedeschi, è stato prima ancora il commiato dal palcoscenico e dalla vita di Marcello Mastroianni che ho avuto la fortuna di vedere a Milano in una delle ultime recite. Il primo tempo è un lungo dialogo tra il padre e la madre, o meglio il suo spettro perché è già morta da tanti anni. Ripercorrono i ricordi felici della vita insieme, con qualche stoccata nei confronti del figlio che di lì a poco verrà e prenderlo per accompagnarlo in un istituto per anziani. Il padre riempie la valigia sotto gli occhi pratici e sbrigativi del figlio e non rinuncia ai suoi commenti a volte irritati, a volte ironici.
IL PADRE. Te l’ho già detto, mi rifiuto di infilarmi qualsiasi tipo di supposta! Ho tenuto duro per ottant’anni, non vedo il motivo di cedere adesso.
…….
IL FIGLIO. Ma sì…! Tanto là ci sarà chi te le mette….
…….
IL PADRE. E come ti immagini che possano infilarmi delle supposte, se io non voglio? Prendendomi a scudisciate?
IL FIGLIO. Non mi risulta che usino questi sistemi. Anche se, personalmente, ritengo che nel tuo caso sarebbero giustificati….
IL PADRE. Rimpiango con tutto il cuore di non averti mai picchiato da bambino!

Il secondo tempo è tutto un monologo del padre, lasciato solo in una stanza dell’ospizio e in attesa di ciò che prima o poi dovrà succedere. Alle orecchie ha le cuffiette e ascolta dal mangianastri un ‘Adagio’ di Bach. Sfoglia un album di fotografie e si lascia andare ai ricordi e ad amare considerazioni sulla vecchiaia.
Ma una volta entrato qui dentro, ti senti solo come mai nella vita. Perché non conti più niente, non sei più nessuno. Perché il tuo passato è come non fosse esistito e non serve a distinguerti. Sei solo uno dei tanti vecchi di Villa Delizia e vieni giudicato non per ciò che sai o che hai fatto, ma unicamente per quanto sei capace di sorbire il brodo da solo o di fare i tuoi bisogni senza sporcare….
Me lo ricordo – io sì mi ricordo – come se fosse ieri, Mastroianni nella parte finale del monologo sulla sacralità della vecchiaia, un crescendo di emozioni e di commozione.
E anche i vecchi dovrebbero essere sacri….perché è sacro e terribile il momento in cui un uomo cessa di vivere. Sacro il vecchio morto tre settimane fa durante il sonno. E sacro il suo presentimento, che gli aveva fatto indossare per la prima volta il pigiama nuovo ricevuto in dono dalla figlia per il suo compleanno.
E poi la conclusione, con quelle poche righe che mi rendono così caro questo libro e mi avvicinano malinconicamente al Natale. Il cerchio si chiude e la vecchiaia riporta all’infanzia.
I miei compagni dicono che preferirebbero morire in estate, con il sole che entra dalla finestra spalancata e li scalda per l’ultima volta. Io no…Io vorrei morire a Natale…con il grande albero illuminato in mezzo alla piazza…mentre la neve cade lenta su tutta Paperopoli…e io la guardo volteggiare nell’aria in compagnia di Qui e Quo, i miei due fratellini…e mi sento a casa, al caldo e al sicuro….
Buon Natale a tutti!

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