Ho visto “Race – Il colore della vittoria” di Stephen Hopkins

Nell’ambivalenza del titolo del film – Race è corsa ma anche razza – è racchiusa tutta l’essenza di questo biopic su Jesse Owens, mito universale dello sport e quindi personaggio che non ha bisogno di ulteriori presentazioni. James Cleveland Owens, detto Jesse dalle iniziali J.C., vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936, un’edizione concepita per celebrare il nazismo e la supremazia della razza ariana nel mondo. Una festa hitleriana rovinata dalle vittorie di Owens. Sono proprio le immagini di atletica (di gara e di allenamento) a salvare quello che diversamente sarebbe un melenso fumettone all’americana. Merito della scelta degli attori e di chi li ha preparati allo scopo. Raramente infatti i film di finzione sull’atletica leggera sono risultati così credibili.
Il regista australiano sceglie di sviluppare alcune figure a scapito di altre. Nel suo lavoro ha dovuto infatti contemperare gli aspetti sportivi (la preparazione della squadra olimpica americana è tuttavia poco sviluppata) con quelli della vita privata di Owens (Stephan James) e ancora le questioni politiche e razziali (era distante alcuni decenni il riconoscimento dei dirittti degli afroamericani) con il quadro internazionale e la propaganda del Terzo Reich del ministro Goebbels. Entro tanta materia era obiettivamente difficile districarsi. Emergono così il rapporto a volte conflittuale tra Owens e il suo allenatore Larry Snyder (a chi sa di atletica avrà ricordato quello tra Pietro Mennea e Carlo Vittori), la bella amicizia tra Owens e il suo avversario nel salto in lungo il tedesco Luz Long (David Kross), la figura della regista di regime Leni Riefenstahl (Carice van Houten) incaricata di celebrare con un film la grandezza dell’Olimpiade nazista e poi affascinata dai trionfi di Owens. Un discorso a parte merita il controverso Avery Brundage (Jeremy Irons) allora capo del comitato olimpico americano e in seguito per lunghi anni presidente del CIO. Il film lo mostra in patria fervido fautore della partecipazione degli USA alle Olimpiadi in contrasto con Jeremiah Mahoney (William Hurt), presidente della Amateur Athletic Union che cercava di boicottarle e poi piuttosto pavido a Berlino di fronte alla richiesta di Goebbels di non far correre due velocisti ebrei nella 4×100 statunitense, scelta che porterà Jesse Owens a vincere un inatteso quarto oro. Il quale Owens, tornato negli Stati Uniti da eroe di Berlino per aver indispettito Hitler, si troverà paradossalmente a dover fare i conti con la disuguaglianza razziale in patria. Martin Luther King è di là da venire e la strada verso l’integrazione è ancora lunga.
Le quattro medaglie di Owens a Berlino furono 100 (10″3), 200 (20″7 RM), lungo (8,06 RO) e 4×100 (39″8). Epoca di piste in terra rossa e buchette di partenza scavate con la cazzuola!
Stephen Hopkins cerca di accontentare un po’ tutti: lo sportivo esigente e lo spettatore di bocca buona. Non ci riesce fino in fondo, ma il risultato nel complesso è apprezzabile. Vedremo cosa dirà il botteghino.

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