Ho letto “Il mangiatore di pietre” di Davide Longo

Bastava un dito di neve e il fieno avrebbe cominciato a marcire
Vita dura, vita grama, vita di montagna. Val Varaita, la via del sale, la Francia. Storia. I porteur, mestiere antico. Portano di tutto, non importa cosa, basta che ci sia da raggranellare qualche soldo scollinando in un senso o nell’altro. Oggi per lo più si tratta di aiutare dei poveri clandestini a sconfinare in Francia eludendo le regole ferree sull’immigrazione. Cesare fa il porteur. Tocca a lui trovare il cadavere dell’amico Fausto che anni prima aveva iniziato allo stesso mestiere. Giace riverso in un bacino del torrente Varaita. Forse ha commesso qualche sgarro nei confronti della mala che controlla il settore ed è stato punito. E ha lasciato un lavoro a metà che porterà a termine Cesare, detto il Francese per i suoi trascorsi a Marsiglia, con l’aiuto del giovane Sergio, voglia di studiare poca ma curiosità tanta.
Sergio pensò il Francese che entrava nel bar, comprava gitanes e beveva il 51. Salutava col bonjour, ma non faceva mai parole con nessuno. Forse in quei silenzi c’erano le disgrazie che aveva avuto.
Sul delitto indaga una giovane e avvenente commissario, Sonia Di Meo. Le fasce di cuoio della fondina le ritagliavano sotto il giubbotto seni piccoli e tesi.
Comprendiamo presto dove la storia tra lei e Cesare andrà a parare e forse questa è una delle poche ingenuità contenute nel libro, che resta un bel giallo di montagna, apprezzato ancor più da chi conosce quei luoghi da profondo Piemonte di cui Davide Longo riprende situazioni e modi di dire. E quelle osterie fumose: Uno specchio del Cinzano rifletteva la loro immagine dal muro. Ma ancora più le vallate, le combe, le pietre, la neve.
Mentre il latte scaldava sistemò nello zaino le ultime cose, quindi mangiò con calma pane abbondante e burro perché un detto sposava mangiar piano e partire dicendo che era un matrimonio ben fatto.
Una storia intrigante, duecento pagine lente e intense, come la vita in montagna.

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