Ho letto “Rubè” di Giuseppe Antonio Borgese

Invece della pace che tutti aspettavamo, è venuto questo castigo di Dio che si chiama dopoguerra, per non sapere che nome più appropriato affibbiargli.
Nell’accostarmi alla lettura di Rubè, capolavoro della letteratura italiana del primo Novecento, mi astraggo dalla grande produzione saggistica e di critica letteraria dell’autore, Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa 1882 – Fiesole 1952), che pure, giova ricordare, fu uno dei diciotto docenti universitari (su oltre 1200) a non prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Tuttavia troviamo nella figura del protagonista Filippo Rubè alcune caratteristiche dell’autore: i natali a Polizzi Generosa che nel romanzo diviene Calinni, la posizione favorevole all’intervento nella I guerra mondiale. Il romanzo, pubblicato nel 1921, gli procurò non pochi appunti dai critici coevi che lo accusarono di eccessivo intellettualismo. Ma è proprio quel mondo, uscito disintegrato dalla Grande Guerra e incapace di decidere quale direzione prendere, che Borgese intende mettere sotto la propria lente d’ingrandimento. Lo si comprende bene nelle parole di Rubè nel finale del romanzo quando afferma di sé: “Io lo so dove sarebbe la mia redenzione; diventare contadino e vangare la terra, operaio, magari alla Adsum, marinaio in un veliero che ci metta sei mesi a fare la traversata. Ma chi mi prende? ma che mestiere so fare? Se sono un buono a nulla! se sono un intellettuale!”.
Dunque Filippo, intellettuale meridionale di buona famiglia, avvocato a Roma con mire politiche, alle soglie della quarantina non è ancora riuscito a trovare una collocazione nella società.
La vita di Filippo Rubè prima dei trentanni non era stata apparentemente diversa da quella di tanti giovani provinciali che calano a Roma con una laurea in legge, un baule di legno e alcune lettere di presentazione a deputati e uomini d’affari.
Deciso interventista, si era arruolato volontario rinunciando all’esenzione che aveva ottenuto a vent’anni per insufficienza toracica, salvo essere colto da paura e depressione ai primi bombardamenti uditi. Perde il suo entusiasmo e va in convalescenza con il terrore di essere considerato come vile.
Dunque era vero. Dunque egli aveva tremato, per pochi colpi lontani e innocui, dispersi fra il cielo e l’acque indifferenti. Lui, Filippo Rubè, coi suoi discorsi interventisti, con la sua partenza da eroe di prima classe, con la scimitarra al fianco. Un miserabile!
Ritorna al fronte e si mostra più incosciente che coraggioso. Una pallottola di mitragliatrice gli trapassa il polmone e la sua guerra finisce lì, medaglia d’argento al valore senza aver mai sparato un colpo. Dopo la lunga convalescenza a Udine fa ritorno a Roma, dove riprende a frequentare Eugenia Berti, figlia del suo colonnello, timida testimone delle sue fobie e per questo oggetto del suo rancore. La costringe a incontri clandestini per avere un’arma di scambio per i suoi segreti.
La bellezza di Eugenia non aveva odore di gioia, faceva trasalire come un presentimento di lutto.
Si reca poi a Parigi dove frequenta con altri ufficiali italiani il salotto di Celestina Lambert, moglie di un generale francese in missione in Romania. Invano corteggia la donna. Abbandona l’esercito e le sue conoscenze parigine gli giovano un lavoro a Milano nella nascente industria meccanica. Torna a Roma per sposare, senza amarla, Eugenia Berti e la porta con sé a Milano. Il lavoro ben presto lo annoia, così come la vita coniugale. In azienda inizia a professare idee vagamente socialiste per cui perde il lavoro.
Che strano mestiere era il suo, dopo vent’anni di studi, dieci di professione e di stenti, e tanto arrabattarsi! Guardiano dell’ordine sociale nel dopoguerra industriale. Si divertiva ricordando di avere letto, anni prima, in un giornale umoristico, il titolo di un mestiere ugualmente pregevole: venditore di vetri affumicati per le eclissi.
Si trova invece trascinato da Gualandi, un ufficiale conosciuto al fronte, nel raid compiuto dagli arditi contro il giornale socialista l’Avanti. È il 15 aprile 1919. Quegli episodi di violenza gli ridanno tono per qualche ora.
Intanto la moglie resta incinta e Rubè si deprime ulteriormente. Con Gualandi frequenta bische e una sera vince una forte somma. Senza pensarci troppo lascia un biglietto a Eugenia con scritto un mare di fandonie. Parte da solo per Parigi, intanto l’amico si è defilato, ma si ferma sul lago Maggiore. Lì ritrova casualmente Celestina, al lago per un periodo con il figlio più piccolo e la governante. Tra i due esplode la passione che dura per settimane mentre Eugenia riceve missive dal marito da Parigi fatte impostare da amici compiacenti. Il disastro è dietro l’angolo: durante una gita in barca sotto un violento temporale Celestina affoga sotto gli occhi dell’amante. Rubè è accusato di omicidio e il suo castello di bugie è smontato.
La prigionia equivaleva in certo modo a ciò ch’egli sperava in altri tempi fossero il servizio militare e la guerra: una esenzione per ordine superiore dall’obbligo di prendere decisioni nella vita quotidiana, una soluzione sociale dei problemi che l’individuo non sa affrontare.
Assolto dall’accusa grazie al lavoro assiduo di un collega avvocato che lo assocerebbe allo studio se lui volesse, Filippo Rubè inizia una lunga peregrinazione in preda alle proprie ossessioni. È la parte migliore del romanzo. Tormentato dai complessi di colpa e incapace di assolversi, di tornare e farsi perdonare dalla moglie che pure lo farebbe, insomma di riprendere in mano la propria esistenza, il giovane percorre in treno tutta l’Italia.
Filippo era un uomo distrutto. Vedeva tutte le possibilità e aveva smarrito tutti i criteri. Un uomo perduto. Non poteva trovare pace che nella morte.
Cerca conforto da un prete a Roma, da una coppia di amici ad Arezzo, torna in Sicilia ma non ha il coraggio di riavvicinarsi alla madre e alle sorelle, e ancora Napoli, Roma, Bologna, dove dopo un tragica serie di fraintendimenti con Eugenia sempre disposta al perdono, viene travolto da una carica di cavalleria durante una manifestazione socialista in cui era incappato per caso. Sarà pianto da Eugenia che arriva in tempo per vederlo e paradossalmente rivendicato come martire sia da sinistra per la sua presenza tra i manifestanti, sia da destra per il suo passato di ‘eroe’ di guerra.
Popoli interi si sono lasciati macellare con la convinzione che questo fosse l’ultimo macello. Io vedo un senso anche in questo abbattimento morale del dopoguerra. I vincitori stessi si domandano se valesse la pena di vincere.
Detto del fallimento dell’intellettuale nell’affrontare la complessità del mondo come raffigurato da Borgese in Filippo Rubè, si può estendere il discorso alla crisi dell’uomo più in generale negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, quelli che portarono alla più triste pagina della storia d’Italia. Giuseppe Antonio Borgese ne scrisse dall’esilio volontario negli Stati Uniti e anche al suo ritorno in Italia dopo il 1948.

Share this nice post:
Questa voce è stata pubblicata in Libri. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*