Ho letto “L’Aleph” di Jorge Luis Borges

Un giorno o una notte – tra i miei giorni e le mie notti che differenza c’è? – sognai che sul pavimento del carcere c’era un granello di sabbia. Mi riaddormentai indifferente; sognai che mi destavo e i granelli di sabbia erano due. Mi riaddormentai; sognai che i granelli di sabbia erano tre.
Conservo gelosamente i 33 libri (alcuni ancora intonsi) della collana La Biblioteca di Babele diretta da Jorge Luis Borges e pubblicata da Franco Maria Ricci negli anni tra il 1975 e il 1985 e tuttavia ho sempre avuto timore ad accostarmi al grande scrittore argentino. Niente di meglio, quindi, della quiete e del tempo rallentato dalla pandemia di questo periodo per provare a entrare fra i suoi temi prediletti, il fantastico nelle sue varie accezioni, il doppio, il sogno, il labirinto, l’immortalità, attraverso questa raccolta pubblicata nel 1949. Lettura invero faticosa perché richiede una cultura, soprattutto classica, sterminata che io non possiedo. E poi i rimandi sono tanti e tali che uno dovrebbe soffermarsi a lungo su ogni racconto per approfondire. Sono diciassette in tutto, molto brevi, non superano le venti pagine, tranne il primo, L’immortale (El immortal), ambientato nei primi secoli dopo Cristo. Vi si narra la storia di un tribuno romano, reduce senza gloria dalla battaglie egiziane, che si imbatte dopo un faticoso viaggio nel deserto in una popolazione di selvaggi che vive ai margini di una città fortificata. Sono gli immortali e per diventare come loro occorre valicare un fiume che scorre nei pressi. Il tribuno lo attraversa e diventa come loro, potendo così assistere a vari eventi della storia dell’umanità attraverso i secoli. La vicenda è raccontata in un manoscritto casualmente rinvenuto nel 1929 dentro un’edizione settecentesca dell’Iliade. Una postilla finale afferma che potrebbe essere stata narrata dallo stesso Omero e che lui e il tribuno possano essere stati la stessa persona.
Esiste un fiume le cui acque danno l’immortalità; in qualche regione vi sarà un altro fiume, le cui acque la tolgono.
Altro significativo racconto è Il morto (El muerto) ambientato alla fine dell’ottocento, tra Brasile, Argentina e Uruguay. Il protagonista è un ragazzino che entra nella banda di un gaucho sanguinario. Per il suo coraggio brucia tutte le tappe ed è nelle grazie del capo, poi ambisce al suo leggendario cavallo, simbolo dell’autorità, e addirittura desidera concupirne la donna. Ma il padrone può contare su uomini più fedeli e non ha mai temuto l’ambizioso ragazzo.
I teologi (Los teólogos) è di ambientazione medievale. Aureliano e Giovanni di  Pannonia sono i protagonisti di un intenso dibattito intellettuale circa l’Ortodossia e le nuove eresie. Il racconto prende l’avvio dalla devastazione della biblioteca di un monastero. Attorno al contenuto dell’unico libro superstite si accende la disputa tra Aureliano e Giovanni di Pannonia: c’è chi cerca l’amore di una donna per dimenticarsi di lei, per non pensare più a lei; Aureliano, allo stesso modo, voleva superare Giovanni di Pannonia per guarire dal rancore che questi gli infondeva, non per nuocergli. Questioni teologiche con abbondanza di citazioni bibliche, la cui ricomposizione avviene nel regno dei cieli, dove l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, l’accusatore e la vittima diventano una sola persona.
Curiosa e più attuale è la storia di Emma Zunz, figlia di un impresario tessile morto suicida dopo essere stato truffato dal socio in affari Aaron Loewenthal. La donna escogita un modo fantasioso per vendicarsi: si lascia stuprare da un marinaio svedese o finlandese, lei uno strumento di piacere per lui, il marinaio uno strumento di giustizia per Emma, che infatti si fa ricevere da Loewenthal fuori orario d’ufficio e lo uccide con la sua stessa rivoltella, inscenando poi l’abuso da parte sua. “Ho vendicato mio padre e non potranno punirmi…
Come si può vedere, questioni storiche e fantastiche si intrecciane nei vari racconti. Chiude la serie quello che dà il titolo al libro, L’Aleph, prima lettera di tutti gli alfabeti ma il riferimento è a quello ebraico. Qui è lo stesso Borges che ascolta i racconti di un amico, un poeta presuntuoso e fanfarone che gli sottopone i suoi mediocri poemi. Poi gli fa scoprire un punto particolare nella sua cantina. Borges segue le sue ridicole istruzioni e si lascia rinchiudere. Nel buio si concentra su quel puntino luminoso per riuscire a vedere il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli, come promesso dall’amico. Mi stupì – scrive Borges – non aver capito fino a quel momento che Carlos Argentino era pazzo.
…vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha mai contemplato: l’inconcepibile universo.
L’Aleph simboleggia dunque la complessità dell’universo ed è un punto di partenza per iniziare a comprenderlo, mentre l’opera di Borges per il sottoscritto resta inafferrabile.

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