“Sul tetto c’è Mendelssohn” di Jiří Weil, una statua da abbattere

«Capo, sui piedistalli non ci sono scritte. Come facciamo a riconoscere questo Mendelssohn?»
Era un bel casino. Nessuno gli aveva spiegato che aspetto avesse la statua di quell’ebreo.
L’incipit del libro è straordinario e anche divertente. Il gerarca nazista Reinhard Heydrich, il regista dell’operazione denominata ‘soluzione finale della questione ebraica’, nel 1942 si trovava a Praga e passando davanti al Rudolfinum, l’auditorium nazionale della musica, notò che tra le statue degli insigni musicisti che ornavano il palazzo alla sua sommità c’era anche quella del noto compositore ebreo Felix Mendelssohn. Evidentemente Heydrich possedeva una buona cultura musicale per riconoscerlo, non come i suoi sottoposti che aveva incaricato di rimuoverla perché era un insulto alla razza ariana. Inizia così una grottesca catena a sbarazzarsi dell’ingrato compito, dal SS-Reichsführer fino all’ultimo SS-Rottenführer e giù giù agli umili dipendenti del comune di Praga.
«Fate un altro giro delle statue e osservate con attenzione i loro nasi. Quella col naso più grosso, quello è l’ebreo».
In realtà si trattava di Wagner. In ogni caso una statua venne abbattuta, con buona pace di tutti, compreso lo stesso Heydrich che non ebbe modo di controllare perché il 27 maggio del 1942 mentre percorreva una strada a bordo della sua Mercedes scoperta venne colpito da una granata che lo mandò all’ospedale e dopo pochi giorni al cimitero. Era un attentato ad opera di un commando di membri dell’esercito cecoslovacco in esilio. Fatti realmente accaduti e qui raccontati da Jiří Weil (1900-1959), scrittore ceco di origine ebraica sopravvissuto all’olocausto di cui è stato testimone in alcuni libri. Sul tetto c’è Mendelssohn è uscito postumo nel 1960 e solo nel 2023 riscoperto in edizione italiana.
Quanto scritto sopra è l’aspetto grottesco del romanzo, che occupa la prima parte. Tutto il resto è il dramma, la tragedia della deportazione alla quale ben pochi sono scampati. L’autore prende in considerazione alcune storie di persone che si sono avvicendate attorno all’abbattimento della statua, a cominciare dagli operai del comune, in una Praga muta e soggiogata di fronte all’orrore.
Il mite dottor Rabinovic, in qualità di direttore del museo ebraico, è incaricato di riconoscere la statua, ma non sarà in grado di farlo. Rudolf Vorlitzer, malato terminale, dal suo letto d’ospedale prega l’amico Jan Krulis di prendersi cura delle due figlie della sorella, già rimaste orfane. Le bambine Adéla e Gréta, nascoste in un vano celato da un armadio in casa di amici, resisteranno a varie perquisizioni di Gestapo e SS ma finiranno come in tante storie che purtroppo conosciamo. C’è Julius Schlesinger, impiegato comunale ma aspirante SS, intrepido delatore delle mancanze altrui, perché disubbidire agli ordini significa la morte, finché dura la guerra, e anche dopo. Sullo sfondo i contrasti tra Waffen-SS e Gestapo, le fucilazioni improvvise senza motivo, i treni piombati in viaggio verso l’ignoto. Spiccano il Treuhand, una struttura fittizia per l’amministrazione fiduciaria dei beni mobili e immobili degli ebrei deportati, attorno alla quale si sviluppavano infiniti latrocini e arricchimenti personali, e la Zentralamt, l’ufficio per la “emigrazione ebraica”, chiamiamola così, diretto dal famigerato Heydrich. E la triste funzione della ghettowache, l’inutile corpo di guardie prive di armi all’interno del ghetto formato dagli stessi ebrei.
Per colonna sonora una canzone di Voskovec&Werich, Proty vetru – Controvento (1935), divenuta una sorta di inno.
L’aveva intonata uno dei condannati, era una canzone di quel famoso teatro, una canzone che negli anni della disfatta era divenuto di conforto, una canzone che parlava di milioni di persone che andranno controvento.
Da leggere! Io l’ho fatto nella settimana del Giorno della Memoria.

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