“Il rumore del tempo” di Julian Barnes, Dmitrij Šostakovič e il Potere

Nei tempi andati, un figlio poteva trovarsi a pagare le colpe del padre, o della madre in effetti. Al giorno d’oggi, nella società più progredita del pianeta, erano i genitori a poter pagare le colpe di un figlio, insieme a zie, zii, cugini, suoceri e cognati, colleghi, amici e perfino l’uomo che distrattamente ti rivolgeva un sorriso uscendo dall’ascensore alle tre del mattino.
Era il 26 gennaio 1936 quando al teatro Bol’soj venne eseguita l’opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk ispirata a un romanzo breve di Nikolaj Leskov. L’opera di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič era già nota e rappresentata in tutto il mondo, da Cleveland a New York, dall’Argentina alla Svezia. Ma quella sera Stalin volle assistere alla rappresentazione. Se ne andò infuriato dopo il terzo atto bollando come caos la musica che aveva ascoltato. Due giorni dopo la Pravda in terza pagina la definiva come inquieta e nevrastenica e Šostakovič come nemico del popolo. Era iniziato lo stigma politico nei confronti del grande compositore. Venne convocato per un colloquio al Cremlino, il primo di una serie di incontri con il Potere. Šostakovič ci scherzerà su perché il secondo avverrà nel 1948 e il terzo nel 1960, tutti anni bisestili. Dopo quella prima condanna – le sue opere furono bandite in tutta l’Unione Sovietica – il compositore trascorre le notti fuori dall’appartamento e accanto all’ascensore, con una valigetta e pochi effetti personali, convinto che di lì a poco i suoi aguzzini sarebbero venuti a prenderlo. Di quel clima fecero le spese anche i figli, spesso umiliati. A dieci anni, a scuola, Maksim era stato obbligato a vilipendere suo padre in pubblico durante l’esame di musica. Tuttavia, per anni Šosta continua a comporre e a inviare la sua musica all’estero. Ma quando in patria la pressione su di lui sembra allentarsi, in qualche modo possa essere perdonato e la sua musica tornare a circolare, ecco ricomparire il Potere con i suoi diktat, le sue imposizioni.
I burocrati gestivano la produzione musicale come ogni altra categoria di prodotto; esisteva al riguardo una normativa specifica, e pertanto anche violazioni della medesima.
La ricostruzione che Julian Barnes fa di questa parte delle vita di Šostakovič, il nocciolo è essenzialmente il suo rapporto con il Potere, è meticolosa e una lettura della stessa ci riporta inevitabilmente all’oggi nostrano, al rapporto tra politica e cultura, al tentativo di irreggimentarla. E allora si affaccia la domanda che interroga gli intellettuali da decenni, di chi è la cultura, di chi è l’arte? Per il musicista Šostakovič l’arte appartiene a tutti e a nessuno. L’arte appartiene a tutti tempi e a nessun tempo in particolare. L’arte è il mormorio della storia, udibile al di là del rumore del tempo.
Quando nel dopoguerra si tratta di rappresentare i musicisti russi in un epico Congresso scientifico e culturale per la pace nel mondo nella primavera del 1949 a New York, Šostakovič è troppo importante per la cultura sovietica per non essere lui il prescelto. Cerca di sfuggire alla chiamata ma infine accetta, dopo una telefonata dello stesso Stalin che molto spudoratamente gli dice che il divieto all’esecuzione della sua musica non è mai partito dai vertici del Cremlino e che comunque ora non è più valido. Per tutto il viaggio ha un angelo custode, un protettore ufficiale, un guardiano, interprete che si professa suo buon amico. Va da sé che tutti i suoi vari interventi sono preconfezionati dal regime e a lui non resta, come unica forma di resistenza, che leggerli in maniera anonima, senza alcuna enfasi, velocemente o non rispettando la punteggiatura. Gli americani sono molto interessati alla sua figura e al suo pensiero. A New York era entrato in una farmacia per comprare un’aspirina e dieci minuti dopo in vetrina era apparso un cartello con la scritta “Dmitrij Šostakovič si serve in questa farmacia”. Stretto tra due poteri, aveva anche dovuto affrontare un colloquio con un esiliato russo che si era rivelato essere un agente della CIA. La sua Lady Macbeth continuava ad essere al bando, ma Šosta non temeva più per la propria vita come in passato. Con la morte di Stalin e il subentro di Nikita Sergeevič Chruščëv quale primo segretario del PCUS – uno che di musica ne capiva quanto un maiale ne può sapere di agrumi – il Potere non perse interesse per il compositore. Il terzo incontro avvenne nel 1960. Arrivò da lui un emissario che gli propose la presidenza dell’Unione dei Compositori. Šostakovič rifiutò ma infine si prese del tempo per riflettere. L’ostacolo più grande era l’iscrizione al partito a cui non voleva aderire. Gli incontri si susseguirono fino alla capitolazione, firmò quel maledetto modulo di iscrizione.
Avevano promesso di lasciarlo in pace. Non lo fecero mai. Il Potere continuò a parlargli, ma non si trattava più di colloqui, bensì di discorsi a senso unico e di una quotidiana banalità: lusinghe, velate insistenze, richieste.
Julian Barnes ha pubblicato The Noise of Time nel 2016 rifacendosi alle diverse biografie del compositore prodotte all’Est come all’Ovest. Traduzione di Susanna Basso.
Per non farmi mancare nulla ho letto questo libro accompagnato dalle note della Sinfonia n. 7 in do maggiore op. 60 “Leningrado”, dalla Jazz Suite n. 1, dal Tahiti Trot. In fatto di musica ognuno ha i suoi pallini…

Uno per sentire
uno per ricordare
uno per bere
(Proverbio tradizionale)

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