“Memoria del male, tentazione del bene” di Tzvetan Todorov, inchiesta sul secolo del male

La storia del XX secolo in Europa è indissociabile da quella del totalitarismo. Lo stato totalitario inaugurale, la Russia sovietica, è nato durante la prima guerra mondiale e ne porta l’impronta; la Germania nazista seguirà poco dopo.
Nell’anno 2000, alle soglie del nuovo millennio, lo scrittore, saggista e filosofo francese di origine bulgara, Tzvetan Todorov, si è interrogato sulla eredità lasciata dal ‘900, che ha fatto intravvedere gli aspetti peggiori dell’uomo (la memoria del male), pur avendo infine visto imporsi la democrazia su larga scala (la tentazione del bene). Per iniziare questa disamina restringe il campo temporale, prendendo in considerazione gli anni dal 1917 al 1991, superfluo spiegare che si tratta delle date della Rivoluzione d’ottobre e del definitivo disfacimento dell’URSS. Perché di Russia e di comunismo, e non solo, si parla molto in questo libro.
Con molta modestia Todorov si dichiara non ‘specialista’ del XX secolo e, per renderci più agevole la comprensione dei fatti, chiama a raccolta le testimonianze di sei personaggi fondamentali nella resistenza al ‘male’. Tre sono scrittori famosi, Vasilij Grossman, Primo Levi, Romain Gary, gli altri sono meno conosciuti ma testimoni altrettanto importanti del loro secolo, David Rousset, Germaine Tillion, Margarete Buber-Neumann.
Una volta vinto il totalitarismo, si interroga Todorov, sarebbe sopraggiunto il bene oppure nuovi pericoli sarebbero incorsi alle nostre democrazie? Sappiamo già come è andata a finire e il primo quarto del nuovo secolo ci ha riportato indietro alla barbarie. Guardiamo alla Russia di Putin per avere una risposta.
Vasilij Grossman è la prima guida per attraversare il secolo del male. Nato nel 1905 a Berdičev, una delle «capitali» ebraiche dell’Ucraina, è autore di opere fondamentali della letteratura del Novecento, quali Stalingrado e Vita e destino. La sua famiglia è stata falcidiata dalla NKVD, gli anni Trenta sono un’epoca difficile. Arrestati e giustiziati una cugina e uno zio che lo ha mantenuto agli studi, la stessa moglie viene internata. Ciononostante quando scoppia la guerra si arruola e diventa il corrispondente più celebre in Unione Sovietica. Alla fine del conflitto inizia a scrivere Stalingrado e lo termina nel 1949, ma subito incontra problemi per la pubblicazione. Grossman scrive a Stalin per farne accelerare la stampa – è il grande capo che decide tutto – ma il romanzo esce solo nel 1952, con il titolo Per una giusta causa. Partono le invidie e le critiche e il libro non ha una vita facile. Punto di svolta è la morte di Stalin nel 1953. Un po’ mi ricorda il percorso del compositore Šostakovič, costretto ad attendere Chruščëv per avere una riabilitazione sommaria, come raccontato da Julian Barnes in Il rumore del tempo.
Grossman è prostrato: nonostante abbia accettato tutte le raccomandazioni dei censori, il lavoro dei suoi ultimi dieci anni non viene apprezzato. 
Nel 1960 Grossman termina Vita e destino e lo propone per la pubblicazione. Nel febbraio del 1961 piomba in casa sua la polizia politica e sequestra ogni appunto per impedirne la pubblicazione. Sotto Stalin, gli scrittori erano arrestati e uccisi; sotto Chruščëv, si lasciano liberi i corpi e ci si accontenta di imprigionare le opere dello spirito. Mi sembra che sotto Putin si sia ritornati indietro di un secolo. Grossman muore di cancro nel 1964 senza essere mai stato deportato. Il genocidio hitleriano è il tema principale di Vita e destino – trentamila ebrei russi di Berdičev annientati nel 1941 -, ma anche l’antisemitismo russo e ucraino non passa sotto silenzio. Il suo testamento è nei suoi libri, rivalutati molto tempo post mortem, le sue idee sono nelle voci dei personaggi.
Terrificante è la storia di Margarete Buber-Neumann, scrittrice e giornalista tedesca. Il doppio cognome è dato dai due matrimoni contratti. Il secondo con Heinz Neumann, dirigente del partito comunista tedesco negli anni ’30. Lei stessa era iscritta al KPD. È stata vittima del famigerato patto germano-sovietico del 1939-41 quando l’amicizia fra i due dittatori era al suo apogeo. Il governo sovietico aveva accettato di «restituire» alla Germania nazista emigrati politici in gran parte ebrei che marcivano nei suoi campi e nelle sue prigioni, in cambio di un gruppo di tedeschi di ideologie comuniste. Per i primi era morte certa nei lager, i secondi sarebbero invece stati «rieducati» secondo il pensiero di Stalin. Buber-Neumann faceva parte di questo scambio e così conobbe sia i lager tedeschi che i campi sovietici.
In Unione Sovietica non c’è né camera a gas né campo di sterminio. Questa differenza è significativa, anche se non basta per rendere gradevoli i campi russi.
In questo capitolo Todorov approfondisce le differenze tra i due regimi concentrazionari, che pur partendo da premesse politiche diverse raggiungono poi lo stesso scopo. Schiavi i prigionieri sovietici, sotto-uomini quelli nazisti. Per i primi lo scopo è mantenere il terrore politico e nello stesso tempo utilizzare un serbatoio pressoché inesauribile di manodopera, per i secondi, pur partendo da un analogo scopo economico, il ruolo principale non è più svolto dal lavoro degli schiavi, ma dalla tortura e dalla degradazione sistematica. Tutto questo è nelle opere di Margarete Buber-Neumann, sopravvissuta a un doppio internamento, nel gulag di Karaganda e nel lager di Ravensbrück. Prigioniera di Stalin e Hitler è il suo libro autobiografico, pubblicato nel 1948. È scomparsa nel 1989.
Ancor più sorprendente è la vicenda di David Rousset. Membro della resistenza francese è stato arrestato dalla Gestapo, torturato e deportato in due diversi campi di lavoro e infine inviato a Buchenwald, da cui è liberato dagli americani. Come saggista, scrittore e deputato dell’Assemblea nazionale ha dedicato la propria vita a riflessioni e attività contro il regime concentrazionario. Nel 1949 intraprende una lotta contro i campi ancora esistenti nel mondo. Fa appello ai deportati sopravvissuti per iniziare una lotta comune, ma si scontra contro un muro. I suoi ex compagni di sventura sono in prevalenza comunisti e ora si tratta di denunciare quelli sovietici. Le federazioni di reduci si spaccano. È un atto coraggioso: sarà immediatamente e violentemente attaccato. I suoi vecchi amici lo lasciano. La stampa comunista lo ripudia. Sartre e Merleau-Ponty lo denigrano nei loro articoli.
Non solo Rousset non si scoraggia, ma è recidivo. In quello stesso mese di gennaio 1950, fonda con un gruppo di ex deportati una Commissione internazionale contro il regime concentrazionario (la CICRC), che deve indagare sui campi di concentramento ancora in attività – ovunque essi si trovino. Hanno idee politiche, religiose e filosofiche più disparate, sono uniti dalla comune esperienza nei campi hitleriani e credono che nel mondo in cui vivono l’urgenza maggiore sia far scomparire i campi ancora esistenti. Il CICRC è considerato un antesignano delle ONG o una Amnesty International ante litteram. Se si indaga su questa sigla non si trova più nulla e i campi di lavoro in Russia esistono ancora. Lo sappiamo bene dai giorni che stiamo vivendo.
L’universo concentrazionario 1943-45 è l’unico libro di Rousset tradotto in italiano, pubblicato da Baldini&Castoldi nel 1997 con una introduzione di Giovanni De Luna. Credo che sarà una mia prossima lettura.
Scriverà Germaine Tillion, altro straordinario personaggio presente in queste pagine, cinquant’anni più tardi: «Per difendere il Giusto e il Vero, a volte bisogna affrontare grandi sofferenze che possono arrivare fino alla morte (ma con il sostegno continuo e profondo di restare così i prossimi del nostro prossimo). Un altro coraggio è richiesto quando Verità e Giustizia esigono che affrontiamo anche il nostro prossimo, i nostri compagni, i nostri amici… Questi due coraggi, David Rousset li ha avuti».
Sorvolo sulle interessantissime cose che Tzvetan Todorov ha scritto su Primo Levi e Romain Gary, immensi testimoni del secolo del male, per non dilungarmi oltre, e mi tengo stretto questo libro come mio vademecum alla ‘tentazione del bene’.

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