Ho letto “La Fiat di Marchionne” di Paolo Griseri

Ho abbandonato per qualche giorno la lettura di romanzi per dedicarmi a questo bel libro di Paolo Griseri che ho trovato affascinante come e più di un romanzo. E’ la storia stessa della Fiat a essere avvincente e non si può essere di Torino senza esserne stati, in un modo o nell’altro, toccati. Anche perché, come scrive Griseri: Dividendo l’Italia in due come uno stadio, l’azienda di Torino ha fatto da punto di riferimento nei cambiamenti. Il libro prende il via dal 1999, anno della celebrazione del Centenario, e dal dilemma se convenga continuare a essere, nel bene e nel male, l’industria di riferimento del Paese. Così pare non essere stato, c’è da dire subito, perché, come si vedrà nel libro, dal raffronto con il comportamento del governo tedesco di fronte ad una analoga crisi dell’industria automobilistica nazionale, è evidente che in Italia è mancata (e manca) una vera politica dell’auto.
Nella storia che racconta c’è molto sindacato (come c’era da aspettarsi, vista la sua estrazione giornalistica) e inevitabilmente Griseri va a parare ai giorni nostri, quando i diritti acquisiti dai lavoratori con decenni di lotte paiono quanto meno congelati, se non soppressi. La narrazione passa attraverso la ricerca di alleanze nel fine secolo, il difficile matrimonio con General Motors, l’avvicendarsi dei manager – un tourbillon continuo fino allì’avvento dell’uomo col pullover -, l’arrivo della grande crisi, la morte dell’Avvocato.
La parola Fiat e la parola crisi cominciano a essere associate sui giornali. Nell’estate del 2001 inizia di fatto il periodo più nero della storia del Lingotto, quello che avrebbe potuto facilmente concludersi con il fallimento della società.
Come in tutti i romanzi che si rispettano, non mancano i colpi di scena. Data per morta, la Fiat si riprende a partire dal 2004 con la guida di Sergio Marchionne, che sembra voler prendere per mano gli azionisti prima ancora che la fabbrica. Una ripresa lunga e difficile, ma presto l’italo-svizzero-canadese agisce anche sui modelli e su un’organizzazione aziendale rigida, piramidale, modellata su quella dell’esercito sabaudo e dettata dalla stessa logica dei numeri.
Marchionne ha un modo convincente di esercitare la leadership che, come dice lui stesso: è una vocazione nobile, è qualche cosa che arricchisce la vita delle persone. E’ un privilegio.
Arrivano nuovi modelli, nasce Mirafiori Village, la 500, l’Italia pare ricompattarsi attorno alla Fiat. Poi nel 2009 si affaccia di nuovo la crisi, questa volta globale. Il manager però fa in tempo a portare a termine l’acquisizione della Chrysler e a mettere la Fiat al riparo. La Fiat, non le fabbriche italiane, non i lavoratori italiani.
Compare una brutta parola: “defiomizzare” la Fiat. Un neologismo che evoca periodi terribili…. Siamo al famoso referendum di Mirafiori. Marchionne dice: “Devo recuperare. Ci sono due voti che mi preoccupano: quello di chi ha votato no su informazioni sbagliate e quello di chi ha votato sì per paura”. Comunque è lui ad avere il coltello dalla parte del manico.
L’altra sera sono passato a “Fiumana”, con ottimismo chiamata ‘Festa’ della Fiom, al parco Michelotti. Il movimento mi è parso più rassegnato che sconfitto. Non so cosa sia peggio.
Il libro termina con un bel capitolo su Detroit, dove Griseri da bravo giornalista d’inchiesta è rimasto per due mesi e dove, verosimilmente, c’è il futuro dell’azienda già torinese. Per tornare a quanto dicevo all’inizio “La Fiat di Marchionne – da Torino a Detroit” è come un romanzo avvincente, il cui finale però non è ancora scritto. Ma mi sembra difficile che sia un lieto fine, almeno per quanto riguarda Torino.

Share this nice post:
Questa voce è stata pubblicata in Libri, Politica, Società, Torino. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*