Ho letto “Maigret al Picratt’s” di Georges Simenon

Era una di quelle giornate tetre in cui ci si domanda cosa diavolo si sia venuti a combinare sulla terra e perché ci si dia tanto da fare per restarci.
La mia ultima lettura (terminata) del 2012 è stata questa inchiesta di Maigret, scritta da Simenon nel 1950 ma che per l’ambientazione ricalca “La ballerina del Gai-Moulin” di vent’anni prima. In questo tabarin di Montmartre lavora una giovanissima spogliarellista, Arlette, che ascolta involontariamente, non vista, un dialogo tra due uomini che parlano del prossimo omicidio di una contessa. La ragazza, spaventata e alquanto brilla, al termine del lavoro si reca in commissariato a raccontare quanto udito ma non viene creduta fino in fondo e lasciata andare non appena smaltita la sbornia. La credibilità della sua narrazione però cresce quando viene rinvenuta strangolata nella sua modesta abitazione. Del caso è investita la polizia giudiziaria con Maigret, che raccoglie quanto deposto da Arlette nel commissariato di zona.
Neanche questa volta aveva voglia di attendere l’arrivo del magistrato, né, soprattutto, di rispondere alle domande dei giornalisti che di lì a poco sarebbero arrivati a frotte.
L’inchiesta dà modo a Maigret di trascorrere alcune notti al Picratt’s, un tabarin di quart’ordine, per calarsi nell’ambiente dove è maturato il delitto. Che è seguito a breve dallo strangolamento in casa di una contessa morfinomane, come aveva predetto Arlette.
Era un piccolo mondo a parte che non aveva nulla a che vedere con la vita della gente comune.
Il Picratt’s è gestito da marito e moglie, vi lavorano un cameriere, tre ballerine/entraineuses, una modesta orchestrina, più un nano che ha il compito di distribuire depliant negli alberghi e raccattare clienti in giro, perlopiù stranieri o disperati che arrivano al locale già ubriachi dopo aver fatto la ‘via crucis’ nei night-club più rinomati. Nei separé del locale Maigret si sorbisce deprimenti striptease, mescola birra e champagne, ma non perde la lucidità per scalfire il muro che nasconde la sciagurata vita di Arlette. Aveva un amante, un poco di buono ed è lui che bisogna cercare.
“Per quanto riguarda l’assassinio, posso affermare che è stato commesso da una persona particolarmente robusta”.
Sicuramente non è tra le più appassionanti inchieste di Maigret, Simenon l’ha scritta, forse un po’ di fretta, durante un soggiorno negli Stati Uniti. Piace però la descrizione dell’atmosfera del tabarin, con il suo ‘dietro-le-quinte’ pruriginoso, con l’orchestra che di tanto in tanto attaccava le note di una java, che allora non era un marchio di Oracle, ma una danza molto in voga nella prima parte del Novecento. Un ritmo 3/4 più veloce del valzer celebrato dalla grande Edith Piaf in “L’accordéoniste” o da Fréhel con “La java bleue”. Ma era un’altra Parigi, destinata a sparire dopo la metà del secolo.
Sul tappettino bianco di pelle di capra, ai piedi del letto ancora intatto, giaceva un corpo: un abito di raso nero, un braccio bianchissimo, dei capelli dai riflessi ramati.

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