Ho letto “Il buon informatore” di John Banville

Sulla maglietta non proprio pulita campeggiava la scritta LIFE SUCKS AND THEN YOU DIE: la vita fa schifo e poi muori.
Dalla grafica della copertina, con quei grattacieli sullo sfondo, si potrebbe pensare che l’anatomopatologo Quirke si sia trasferito per qualche ragione a New York, perché la silhouette dell’uomo in nero con il cappello e lo sguardo rivolto verso il basso è inequivocabilmente quella presente sulle copertine dei libri di John Banville che raccontano le quattro (finora) storie ambientate a Dublino negli anni Cinquanta.
In questo noir anomalo invece di irlandese c’è soltanto l’origine dei principali personaggi, il resto è totalmente americano, con tanto di riferimenti alla CIA e a personaggi esistiti, come J. Edgar Hoover, quello del film diretto da Eastwood e interpretato da Di Caprio. Il personaggio che indossa la maglietta di cui sopra è il cacciatore d’informazioni del titolo, Dylan Riley, un ragazzo dalla forte somiglianza con un lemure (The Lemur è il titolo originale). E’ assunto da un famoso giornalista un po’ in disarmo ormai, John Glass, con il compito di raccogliere informazioni circa il proprio suocero su cui deve scrivere una biografia autorizzata. ‘Big Bull’ Mulholland, ex grande capo della CIA e ora ricchissimo finanziere, ha infatti incaricato a questo scopo il secondo marito di sua figlia Louise, prima di ritirarsi dagli affari e lasciare il trust nelle mani del nipote. In breve il ‘lemure’ si rivela un ricattatore, avendo scoperto un segreto che riguarda la famiglia.
“E io le dirò che tutti hanno dei segreti, perlopiù inconfessabili.”
In effetti John Glass ha un’amante e teme di essere lui l’oggetto del ricatto, ma non fa in tempo a scoprirlo perché Riley viene assassinato nel suo studio, con un proiettile sparato nell’occhio sinistro da una pistola Beretta, come sostiene il capitano Ambrose: “Macchie sulla sedia” disse. “Come insegnano i manuali medici: non c’è morte senza defecazione”.
Il segreto che il ‘lemure’ si sarebbe portato nella tomba è però passato ad un altro losco personaggio: un giornalista d’assalto, un nero elegante e azzimato dall’eloquente nome di Cleaver (in italiano ‘mannaia’). Cleaver si mette subito in contatto con Glass il quale comincia però a sospettare che nel passato della famiglia di sua moglie ci sono cose che non dovrebbero essere portate alla luce.
Glass stava calcolando quante bugie aveva detto al poliziotto fino a quel momento. O forse non erano bugie in senso stretto (….) ma enfasi fuorvianti, reticenze strategiche. Com’è che si diceva? Peccati di omissione?
Cosa ci sarà nella famiglia Mulholland da tenere segreto, tanto da giustificare un omicidio? Che cosa aveva scoperto il cacciatore d’informazioni? Glass cerca per conto suo di venirne a capo e alla fine la verità è nelle sue mani, a lui tocca decidere cosa farne. E in fondo sono tutti colpevoli….
“Adesso hai la ‘tua’ storia”. Lo guardò con compassione. “Dipende da te, John” gli disse. “Mi dispiace, ma dipende da te”.
Nonostante l’ambientazione newyorkese, si sente fortemente l’atmosfera irlandese. Probabilmente per quella famiglia, cattolica e oppressiva, che ha lasciato in Irlanda insieme con le proprie radici anche i valori. La vicenda, con i segreti inconfessabili all’interno del quartetto nonno-figlia-genero-nipote, fa molto pensare ai drammi borghesi di Ibsen.
John Banville ci ha regalato un altro grande ‘noir’, preciso e potente, centosettanta pagine dove neanche una parola viene sprecata.
“Se in una stanza non sai chi è il gonzo, vuol dire che il gonzo sei tu”.

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