Ho visto “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi

Esce nelle sale con una settimana di anticipo, rispetto a quanto annunciato, il film di Gianfranco Rosi, Sacro GRA, trionfatore alla 70ma Mostra del Cinema di Venezia. Non a caso uso la parola trionfatore, perché ho assistito a quella proiezione ufficiale, conclusa con un’ovazione durata un quarto d’ora. Al netto della claque che poteva contenere la sala, erano applausi veri, di gente convinta dal film e che ha finito per indirizzare la giuria verso questa scelta. Da quindici anni un film italiano non vinceva il Leone d’Oro, mai un documentario aveva vinto a Venezia.  Ora, però, arruolare d’ufficio Sacro GRA tra i documentari mi sembra una forzatura, con tutto il rispetto per la filmografia di Rosi che comprende soltanto doc. Qui prende delle persone, diciamo così “pittoresche” e le fa recitare loro stesse. Si può parlare di cinema-verità? O di docu-fiction? Ci sono illustri e prestigiosi precedenti. Dare etichette però è sempre molto rischioso, tuttavia il mondo del documentario italiano non è andato per il sottile, ha preso e festeggiato, nella speranza che tutto il genere venga rilanciato, cosa di cui ha in effetti un gran bisogno.
Attorno all’anello autostradale che circonda la Capitale (anche questa del GRA mi sembra una forzatura) nascono e si sviluppano tante storie, come in ogni zona suburbana. Gianfranco Rosi ne ha scelte alcune: c’è l’anguillaro Cesare che vive su una chiatta ancorata sul Tevere; c’è il barelliere Roberto su un’ambulanza che di notte sembra un’astronave; c’è Francesco, che si è preso a cuore la salute delle palme e le vuole liberare dalle larve di un parassita, ben noto agli entomologi, che le stanno  divorando, e nottetempo le va ad auscultare; ci sono l’improbabile “principe” Filippo e la consorte lituana; c’è il nobile decaduto piemontese con figlia a carico, così fuori posto che alla fine ci può anche stare… Il Grande Raccordo Anulare c’è sempre o fa da sfondo e diventa il pretesto per collegare le storie, mondi invisibili e fra loro impermeabili, che diversamente il regista non avrebbe potuto mettere insieme. Gianfranco Rosi lo ha scritto, diretto, fotografato (in maniera splendida) e ne ha curato il suono. In questo sì, si riconosce il piglio del documentarista di mestiere. Il montaggio è di  Jacopo Quadri.
Ai calorosi applausi di Venezia non mi ero unito – se non a quelli di pura cortesia – essendo rimasto perplesso di fronte a un’operazione a mio giudizio un po’ ruffiana (ma poi risultata vincente). Il giorno dopo avevo incontrato il regista a pranzo con il suo entourage in una trattoria del Lido. Ora attendo con curiosità il giudizio del grande pubblico nelle sale, dando per scontato il successo a Roma e dintorni. In fondo, il pubblico ha sempre ragione.
PS. Non sempre i personaggi “pittoreschi” fanno sorridere, molte volte danno da pensare…

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