Ho visto “Alabama Monroe”

Felix Van Groeningen ha dimostrato che si può fare un film ‘americano’ anche restando in Europa, per l’esattezza nella campagna belga, senza snaturarla, ma semplicemente ambientandovi una storia country tra un gruppo di musicisti locali invasati per la musica bluegrass. In questo gruppo Didier è il leader, canta e suona il banjo, e fa subito colpo su una biondina che al termine della serata rimorchia e porta a casa.  Elise lavora in un negozio di tatuaggi e a sua volta i tatuaggi sulla sua pelle ne raccontano la vita, fatta di tanti nomi degli uomini che ha amato. Lei va a vivere da lui e nello stesso tempo entra nel gruppo come cantante.  Seguono tante belle serate di musica insieme e insieme restaurano una casa. Un rapporto che procede tra alti e bassi come in tutte le coppie  fino a quando, in maniera non programmata, mettono al mondo la figlia Maybelle. A questo punto si innesta il melodramma. Il regista fa avanti e indietro nella storia per narrare la malattia incurabile della bambina e la sua straziante agonia. Il dolore che dovrebbe o potrebbe rafforzare ancor più l’amore tra Didier e Elise, invece li divide: il lutto della ragazza prende una deriva mistica che Didier, che lo ha elaborato più razionalmente e con energia si è buttato nella musica, non vuole capire. Lo strano comportamento di Elise acuisce le incomprensioni, i litigi si susseguono. Fine dell’amore, fine della complicità. Elise si stacca, si trasferisce e torna a fare la tatuatrice. Cambia addirittura nome, ora si fa chiamare Alabama. Monroe è invece il nome che suggerisce a Didier di darsi. Un’altra tragedia chiude il film.
I tatuaggi metti-togli-metti sulla pelle della ragazza diventano la sintesi della storia e ne raccontano la gioia (poca) e il dolore (infinito). Film tristissimo, da non consigliare ai depressi. Alabama Monroe ha raccolto un sacco di premi, in Europa e in America, dove ha avuto anche la nomination all’Oscar per il miglior film straniero (vinto poi da La grande bellezza). Il lavoro di Van Groeningen ha anche il pregio di sollevare il tema delle cellule staminali che se utilizzate su Maybelle forse avrebbero potuto salvarla. Il regista lo affida ad un accorato monologo di Didier che interrompe un concerto in sala per raccontare della figlia scomparsa.
Interpretazioni da applausi degli sconosciuti Johan Heldenbergh e soprattutto Veerle Baetens. Musica tanta, acustica, solo corde, genere folk country o bluegrass.

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