Ho visto “This must be the place” di Paolo Sorrentino

Non capisco perché quando un regista europeo gira il suo primo lungometraggio negli Stati Uniti debba avere come riferimento il road movie. Nella trappola è caduto anche Paolo Sorrentino che ho sempre apprezzato sia per i film meno noti (L’uomo in più) che per quelli di minor successo (L’amico di famiglia). Di conseguenza ha infarcito il suo lavoro di scontate cartoline – ne cito alcune, Central Park dall’alto, il Grand Canyon, il solito nastro d’asfalto che si perde nel deserto…. – e di altri stereotipi americani come il pick-up (che prende fuoco da solo), la grassona punk, il pistolone di facile acquisizione, il tatuato nella tavola calda e potremmo continuare il gioco all’infinito. Perso dietro a questi dettagli, accurati non c’è che dire, Sorrentino perde un po’ di vista la storia, di per sé già molto debole. Troppe volte infatti abbiamo visto al cinema, anche recentemente, la caccia dell’ebreo al persecutore nazista del proprio genitore. E la splendida maschera di Cheyenne/Sean Penn (un look ispirato a Robert Smith dei Cure) in questa veste non risulta proprio credibile.
Il film è diviso in due blocchi non collegati bene tra loro: il tran tran quotidiano in Irlanda di Cheyenne, rockstar in disarmo ed ex-eroinomane ma tuttora ricchissimo, e di sua moglie Jane (una imbruttita Frances McDormand); la ricerca del nazista (talmente nazi che figlio e nipote hanno nomi ebraici…..Nathan e Rachel, in realtà è un povero vecchio perseguitato pure lui) negli Stati Uniti dove Cheyenne è stato chiamato per la morte del padre.
Ora però vengo alle note positive. La colonna sonora è bellissima e l’apparizione di David Byrne sublime. L’ottantacinquenne Harry Dean Stanton offre un cameo indimenticabile (e una dentiera smagliante). L’incontro con Rachel (Kerry Condon) e il figlioletto cicciottello che ha paura dell’acqua è una scena da ricordare. E poi ci sono i dialoghi che rendono il film accettabile. In particolare le battute di Cheyenne, un misto di ironia e di buon senso, che stanno diventando addirittura oggetto di culto tra quanti hanno visto il film.
Qui nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico…
Il problema è che passiamo troppo velocemente dall’età in cui diciamo “farò così” a quella in cui diremo “è andata così”
La solitudine è il teatro dei risentimenti

Share this nice post:
Questa voce è stata pubblicata in Cinema. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*