Ho letto “L’uomo che andò in fumo” di Maj Sjöwall e Per Wahlöö

Martin Beck, l’incorruttibile, più interessato al numero di piede delle donne piuttosto che al colore dei loro capezzoli.
Scritti tra gli anni ’60-’70 dello scorso secolo, pubblicati da Garzanti e poi ripresi da Sellerio trent’anni dopo, i gialli di Maj Sjöwall e Per Wahlöö conservano oggi tutta la freschezza originale e in questi giorni di reclusione forzata rappresentano un valvola di sfogo (quanto a lettura) da non sottovalutare. Ne avevo letti un paio in precedenza poi avevo abbandonato la serie incentrata sul commissario Martin Beck e su certe atmosfere sociopolitiche svedesi che qualche anno più tardi avrebbe meglio delineato Henning Mankell con la saga di Kurt Wallander a cui affidò il suggestivo sottotitolo di ‘inquietudine svedese’. L’uomo che andò in fumo (Mannen som gick upp i rök) è del 1966.
La misteriosa scomparsa di Alf Matsson, un giornalista di successo ma dai modi poco ortodossi, spinge Beck a Budapest. Sulle sponde del Danubio si sono infatti perse le tracce del giornalista. Matsson  è sempre stato ubriacone e attaccabrighe, per cui la sua sparizione inizialmente non desta preoccupazione. Poi è lo stesso direttore del giornale a sollevare la questione perché il suo collaboratore non risponde alle chiamate. Diventa un caso internazionale che investe il ministero degli esteri svedese e la polizia ungherese. Per occuparsene Martin Beck viene addirittura prelevato dall’isola in cui si trova in villeggiatura con la famiglia.
Martin Beck dapprima si reca nei pub in patria frequentati da Matsson e dai suoi colleghi ubriaconi. Vuole capire che razza di mondo era il suo. Poi viene spedito in missione non ufficiale, allora c’era ancora la cortina di ferro, e la collaborazione tra le due nazioni avveniva tra reciproci sospetti. A Budapest non c’è molto da fare, se non controllare gli ultimi luoghi in cui il giornalista è stato avvistato, un albergo, poi un altro. Scopre però che Matsson frequentava un terzetto di trafficanti di droga e faceva spesso viaggi negli altri paesi del blocco comunista spingendosi talvolta fino in Turchia. Fondamentale, ai fini della soluzione del caso, è l’esame del bagaglio abbandonato in albergo dallo scomparso, abiti e macchina da scrivere portatile. Il commissario rischia addirittura l’incolumità quando il cerchio attorno ai trafficanti si stringe. Beck trova infine la collaborazione decisiva di un poliziotto ungherese, Vilmos Szluka, che diventa per lui una guida preziosa attraverso i luoghi di Budapest, rinomate terme comprese. Con lui si tiene in contatto anche dopo il ritorno in patria. Il giornalista-trafficante non era ‘andato in fumo’ in un posto troppo lontano da casa sua. Una banale lite tra ubriachi e poi la simulazione della scomparsa in Ungheria.
Martin Beck guardava la propria immagine riflessa nello specchio fumé dietro la fila di bottiglie. Quando l’immagine cominciò ad offuscarsi, chiamò un taxi e tornò a casa.
Insomma, il nostro commissario non ha metodi investigativi molto dissimili rispetto ad altri suoi colleghi. I due scrittori Maj Sjöwall e Per Wahlöö infilano nella narrazione qualche interessante notazione storica o linguistica, come quando Beck confonde la parlata ungherese con quella finlandese, lingue che in effetti appartengono allo stesso ceppo (così come certe tradizioni musicali). E qui una riflessione personale.
Sono sempre più affascinato dalle coincidenze che incontro nelle mie letture. Quando ho iniziato questo libro non sapevo minimamente che si svolgesse soprattutto a Budapest. E in quei giorni ero alle prese con Scritti sulla musica popolare di Béla Bartók mentre mia figlia Marta si trovava proprio a Budapest per una registrazione e per ricerche sulla musica del compositore magiaro.
Avevano proseguito col battello fino al capolinea, davanti al famoso Hotel Gèllert, avevano camminato per un po’ lunga una strada intitolata a Béla Bartók...

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