Ho letto “L’orologio” di Carlo Levi

C’era stato un momento in cui gli uomini si erano sentiti tutti uniti fra di loro e col mondo, e avevano visto la morte e vissuto in un’aria comune. Questo momento non era finito del tutto.
Sono sempre più colpito dai percorsi attraverso i quali si arriva a certi libri che non dalle letture stesse. Ovviamente avevo letto Cristo si è fermato a Eboli in età adolescenziale, ma poi sono arrivato a Carlo Levi e ai suoi viaggi in Sicilia contenuti in Le parole sono pietre grazie alle suggestioni e agli impliciti suggerimenti dei libri di Vincenzo Consolo. Il passo successivo mi ha portato a L’orologio, pubblicato nel 1950, un romanzo fondamentale per capire la turbolenta Italia del 1945. Sullo sfondo c’è il governo di unità nazionale di Ferruccio Parri, durato pochi mesi, che porterà in dicembre al primo governo De Gasperi. Tra le righe delle vicende autobiografiche di Carlo Levi si legge tutto il fermento dell’epoca, gli echi della guerra non ancora sopiti, i timori per una restaurazione fascista sotto mentite spoglie, la fine dell’esperienza azionista. Levi si è appena trasferito a Roma dove è stato chiamato a dirigere L’Italia Libera, l’organo ufficiale del Partito d’Azione, in quei giorni diventato quotidiano.  La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti.
Il libro inizia con un orologio che si rompe, un orologio da tasca che gli era stato regalato dal padre quando si era laureato. Gli sfugge di mano un mattino mentre si riveste, vetro rotto, quadrante scheggiato, lancette spezzate, meccanismo funzionante. Il doloroso fatto gli provoca una serie di ricordi e alcuni incubi notturni. Lo scrittore inizia una ricerca tra gli artigiani romani per farlo riparare. Intanto si procura un alloggio provvisorio, poi un altro e un altro ancora. Personaggi incontrati e luoghi, le atmosfere di Roma, sono come altrettanti quadri, non dimentichiamo che Carlo Levi era anche pittore. Alcune pagine sono memorabili, come quella in cui descrive il microcosmo della pubblica amministrazione del tempo: Il Ministero è una specie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abbietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invidia. Sono i tre vizi propri di quella piccola borghesia incapace, che cerca, insieme, sicurezza e dominio... Verrebbe da pensare che quel clima è durato ancora decenni e forse non è mai finito: …esseri seduti sulle loro sedie, davanti alle loro scrivanie, a far nulla, materialmente nulla, neanche a leggere il giornale, per ore e ore, con gli occhi imbambolati, in una specie di estasi d’ozio...
Levi se la prende con il socialismo che non sa più esprimersi ed è ingombro di nostalgie, rottami, vecchie bandiere, stemmi frusti e clientele personali, una resistenza passiva a cambiare. Tutt’altro clima si respira tra i collaboratori del giornale, poco o per niente pagati ma entusiasti verso il lavoro. Ancora una volta le pagine più belle sono quelle che descrivono la vita nella redazione, i rapporti tra i giornalisti azionisti, il clima nella tipografia ubicata sottoterra, una serie di grandi cantine senza luce e senza aria. Fa effetto leggere oggi, in epoca di media digitali, di telai, piombo, inchiostro, corpi tipografici, linotype. E di personaggi pittoreschi che animano il giornale e poi si danno appuntamento nelle osterie per interminabili bevute e discussioni politiche. Il vino dei Castelli è metabolizzato nel sangue dei romani, ma è un veleno per i forestieri perché si beve e ci si addormenta. L’arma segreta della città di Roma: chi arriva qui pieno di vitalità e di voglia di fare, un po’ che ci rimanga, con quel vino gli passa la voglia, si trova un cantuccio al fresco, ben riparato, cade in letargo e diventa romano.
Le riunioni di redazione sono come delle veglie davanti a bottiglie. Levi le guarda con distacco, cercando intanto l’ispirazione per i suoi editoriali, con un’inerzia che è quella del pittore davanti alla tela e in attesa della prima pennellata. Sotto la guida di Carlo Levi il quotidiano, nonostante i pochi mezzi di cui disponeva, decollò e arrivò a vendere 300 mila copie, avvalendosi tra l’altro di prestigiosi collaboratori, di cui tuttavia nel libro non si fanno mai i nomi.
Accade poi che lo scrittore debba recarsi a Napoli, al capezzale di un affezionato zio morente, Luca Levi. È l’occasione per descrivere il viaggio in un’Italia disastrata, strade dissestate, ponti rotti, collegamenti inesistenti, fatto con mezzi di fortuna e in più il rischio di essere assaliti dai banditi: è il 1945 non l’800 borbonico! Napoli …bambini vestiti di cenci, a piedi nudi nel freddo, si muovevano qua e là raccogliendo mozziconi di sigaretta… Qualcuno lontano suonava la tromba, e, a tratti, si sentiva la cantilena di un uomo col sacco, che comprava capelli.
Carlo Levi non fa in tempo a vedere vivo lo zio, ma l’anziana governante gli consegna un orologio, secondo le sue ultime volontà: Era un orologio d’oro, da medico, col contasecondi; uno splendido vecchio Omega, in tutto simile a quello che mi aveva regalato mio padre. Qui il cerchio si chiude. Il romanzo era iniziato con un orologio e si conclude con un altro. A Carlo Levi non resta che tornare a Roma, questa volta con un viaggio un po’ più agevole, in automobile in compagnia di due ministri, Tempesti e Colombi, nomi immaginari, come tutti quelli citati nel libro. La verosimiglianza della fantasia, scrive in una nota in fondo al volume.

Share this nice post:
Questa voce è stata pubblicata in Libri, Politica, Società e contrassegnata con , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*