Ho visto “Philomena”

Tra i cinepanettoni natalizi si annidano anche film che fanno leva sui buoni sentimenti, come questo che annovera due nomi di buon livello: il regista Stephen Frears (Liam, The Queen, Tamara Drew) e la pluripremiata e ‘nominata’ attrice Judi Dench (Skyfall, Marigold Hotel, J. Edgar per restare alle interpretazioni più recenti, ma premio Oscar nel 1999 per Shakespeare in Love). L’eterno tema dell’agnizione – il riconoscimento – qui nella variante di una ricerca volontaria, è al centro della trama di Philomena. Una vicenda realmente acccaduta e documentata successivamente dal libro di Martin Sixsmith (uscito in Italia da Piemme in concomitanza con il film) il giornalista politico che assume il ruolo di coprotagonista. Martin, consulente appena esodato dal partito di Blair, accetta di aiutare un’anziana signora, Philomena Lee, nella ricerca di un bambino partorito da ragazzina 50 anni prima in un convento di suore in Irlanda e poi dato in adozione contro la sua volontà. Per tutta la vita ha mantenuto per sé il segreto, salvo poi sentire il bisogno di provare a cercarlo dal giorno in cui lui avrebbe compiuto cinquant’anni. Benché non avvezzo a raccontare storie di vita vissuta, Martin si impegna nella ricerca, ovviamente riservandosi di scriverne la storia per una casa editrice che ne ha acquisito i diritti.
Tra Martin e Philomena si crea così un rapporto di complicità quasi filiale. Le ricerche prendono l’avvio dal convento stesso dove Philomena ragazza era stata reclusa. Molto è cambiato da allora, ma non troppo – alcune suore dell’epoca sono ancora vive – e l’ambiente li respinge come un muro di gomma. Ma alcune crepe si aprono, un po’ per i ricordi di Philomena, un po’ per le chiacchiere della gente del luogo. E gli indizi vanno in una direzione sola: negli anni Cinquanta le suore irlandesi ‘commerciavano’ i piccoli ‘frutti del peccato’ verso gli Stati Uniti. Famiglie americane facoltose si recavano in Irlanda a comprare i bambini, così era stato anche per Anthony, il figlio di Philomena, prelevato dal convento quando aveva solo quattro anni, sufficienti però a lasciargli dei ricordi indelebili nella memoria.
Qui apro una parentesi, perché Dove è sempre notte (2006, 2008 nell’edizione italiana), il primo bellissimo romanzo dell’irlandese John Banville che ha per protagonista l’antomopatologo Quirke Griffin, solleva il velo su una tratta di bambini di ragazze madri da Dublino verso il Massachusetts, più o meno negli stessi anni, organizzata sempre da suore. Le analogie tra le vicende sono molte: in entrambi i casi la soluzione arriva da un viaggio negli Stati Uniti. Nel noir di Banville, Quirke chiarisce sull’altra sponda dell’oceano la dolorosa vicenda che riguarda la sua famiglia.
Philomena scoprirà invece che anche Anthony – in America divenuto Michael – aveva provato con i vaghi ricordi dell’infanzia irlandese a rompere quel muro di gomma e a cercare la madre naturale. Tanto basta alla credente Philomena – vissuta per tanti anni nella convinzione di dover espiare per una colpa quasi infantile – per arrivare a perdonare le suore che le hanno fatto tanto male. A scanso di equivoci però meglio rendere pubblica la storia, via libera quindi alla pubblicazione di The Lost Child of Philomena Lee, da cui è tratto, come dicevo, un film di buoni sentimenti, costruito bene e con ottimi interpreti.

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