Ho visto “Vizio di forma” di Paul Thomas Anderson

Per cercare di capirci qualcosa conviene partire dall’omonimo romanzo del 2009 di Thomas Pynchon da cui Paul Thomas Anderson (Magnolia, Il petroliere, The Master) ha ricavato il film. Inherent vice (è il titolo originale) si riferisce a un concetto legale, un vizio intrinseco che può causare l’annullamento di un contratto, assicurativo ad esempio. Di Pynchon avevo letto il secondo romanzo, L’incanto del lotto 49 (1966), facendo molta fatica ad orientarmi. Pynchon, ritenuto uno dei massimi esponenti della letteratura postmoderna, per la figura del protagonista Doc Sportello, il più “fumato” investigatore privato che si sia mai visto al cinema, deve aver attinto alla controcultura hippie su cui si era formato negli anni giovanili. Pare che Anderson abbia ricavato da Vizio di forma la copia conforme cinematografica, divergendo soltanto nel finale. Tuttavia, su una struttura di per sé hard boiled, il regista cerca di disseminare comicità a piene mani. Il risultato non è assolutamente convincente e il film è inaspettatamente e insopportabilmente noioso (dura due ore e mezza!), oltre che inutilmente volgare. Forse lo possono apprezzare i “fattoni”, come “fattoni” sono i tanti personaggi che lo popolano.
Dunque, questo tossico hippie di Doc Sportello è incaricato sostanzialmente di tre indagini che si accumulano una dopo l’altra: per la sua ex, Shasta, che ha una relazione con il miliardario immobiliarista Mickey Wolfman, deve evitare che l’uomo sia internato per gli intrighi della moglie e del suo amante; rintracciare un uomo scomparso nel nulla, Glen Charlock, che è proprio la guardia del corpo di Mickey Wolfmann; cercare il defunto sassofonista Coy Harlingen che la vedova ritiene ancora vivo mentre in realtà è stato fatto sparire dai federali per i quali lavora come informatore sotto copertura. Come sempre in queste storie c’è di mezzo un alter ego del detective privato, in questo caso “Bigfoot” Bjornsen, ispettore del dipartimento di polizia, corrotto e totalmente suonato. Più che condurre indagini sui tre casi, che si contorcono e avviluppano tra loro, Sportello si lascia trasportare dalle vicende come una navicella tra i marosi. Avventurarsi oltre nel raccontare la trama non è opportuno, non tanto per evitare di raccontare e spiegare troppo (questo non sarebbe comunque possibile, perché bisognerebbe aver capito qualcosa…), quanto per evitare di essere avvolti dall’atmosfera fumosa e soporifera che tutto il film emana.
Il clima californiano degli anni ’60-’70, questo è reso bene dai costumi, dalle scenografie e soprattutto dalla calda fotografia di Robert Elswit, da sempre collaboratore di Anderson. La colonna sonora è ovviamente molto vintage e ripropone brani di musicisti e gruppi dimenticati (Tornados, Marketts, Cascades, Association, Cliff Adams, Bob Irwin…) ma su tutti giganteggia il Neil Young di Harvest e Journey Through the Past. Se poi vogliamo proprio salvare qualcosa del film, ci sono l’interpretazione che Joaquin Phoenix fa di Doc Sportello e una bella sequenza con la sua Shasta (Katherine Waterston). Il cast è comunque di quelli da grande produzione: Josh Brolin, Benicio del Toro, Owen Wilson, Reese Whiterspoon, Eric Roberts.

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