Cosa mi rimane del 36° TFF ?

Da qualche anno, con lo scadere dei miei incarichi di lavoro, aborro tutti i momenti pubblici enfatici: evito le conferenze stampa, le feste di apertura e chiusura, le premiazioni. Così mi posso concentrare sui film. Pago i miei 50 euro di accredito. Staziono permanentemente al Cinema Classico, dove vengono proiettati i film per la stampa, entro, esco, bevo un caffè, rientro per un altro film. Ad un festival fuori sede (per anni ho frequentato Cannes, Venezia, Locarno e tanti festival minori) il numero dei film visti è maggiore rispetto al festival di casa, dove sei chiamato anche a rispondere alle tue ineludibili incombenze quotidiane. Quindi quest’anno ho visto solo una dozzina di film, con scelte casuali, e non quelli che avrei voluto vedere. Me ne rammarico, ma nel contempo, come sempre, ho visto cose insolite e ho imparato qualcosa.Ho iniziato con Mandy di Panos Cosmatos, figlio di quel George P. che qualche film interessante ci ha lasciato. Mandy è un horror molto splatter e in quanto tale non suscita il mio interesse. Raramente, molto raramente, sono uscito da una proiezione prima della fine, perché mi aspetto sempre di vedere qualcosa di buono da un momento all’altro. Qui non ho sopportato il faccione bollito di Nicholas Cage nei panni di un boscaiolo che con la moglie cade nelle mani di una setta sanguinaria. Eppure qualcosa da salvare c’è anche in questo film ed è la musica sui titoli di testa. Si tratta della celebre Starless dei King Crimson, uno dei brani più significativi della musica progressive anni ’70. Sono corso a casa ad ascoltarlo tutto (dura 12′). Sconvolgente, la chitarra di Robert Fripp ti prende direttamente alla bocca dello stomaco. Panos Cosmatos chissà cosa ti è preso per inserire questo pezzo nel tuo film. Comunque grazie per il regalo. Ora Starless è nella mia compilation ideale su Spotify.
Mi sto preparando a trascorrere qualche giorno a Parigi e questo L’amour debout di Michaël Dacheux è capitato proprio a fagiolo. Léa fa la guida turistica nella capitale e accompagna turisti e non, spesso distratti e poco interessati, a vedere La Villette, Montmartre, a scoprire i luoghi di pittori, scrittori e musicisti famosi. Si è appena lasciata con Martin che è di Tolosa e sogna di fare cinema a Parigi. Entrambi devono ancora decidere quale strada intraprendere nella vita. Léa inizia a frequentare un musicista più grande di lei che vive su un barcone ancorato nel Bassin de l’Arsenal vicino alla Bastiglia. Martin va a convivere con un ragazzo incontrato per caso e scopre una propria diversa identità sessuale. Quando Léa e Martin si ritrovano non ci sarà nessun rimpianto, solo un po’ di malinconia. Citazioni cinefiliache. Suddiviso nelle quattro stagioni, L’amour debout è una commedia discreta e delicata, molto “rohmeriana”. Anche qui una scoperta musicale. Durante una festicciola viene ascoltato un lp di Colette Magny (1926-1997), molto originale, storica cantante e compositrice, impegnata nell’estrema sinistra francese e sempre coinvolta nei problemi del mondo.
Drammatico e attualissimo, per il tema trattato, è Atlas del tedesco David Nawrath (in concorso e vincitore del Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo). Il cinquantenne Walter lavora come traslocatore per una ditta di sgomberi di appartamenti al servizio di una immobiliare di proprietà di speculatori senza scrupoli, per ristrutturarli e rivenderli con profitti enormi. Si tratta di svuotare interi palazzi, con le buone o con le cattive. Il buon Walter (intenso e credibile l’attore Rainer Bock, non a caso premio per il miglior attore del TFF) è uno di poche parole, tiene un profilo basso, gran lavoratore, che vive però un dramma interiore che si disvela quando si tratta di affrontare il trasloco di una famigliola, ultima a resistere in un palazzo ormai tutto svuotato. E’ infatti quella del figlio che ha abbandonato da piccolo. Si avvicina alla famiglia senza palesarsi e per convincerli a traslocare per evitare guai peggiori arriva a rapire per qualche ora il nipotino. Il finale è apparentemente tragico. Atlas è un bel noir con una trama in crescendo.
Sono un estimatore di Davide Longo ed ero sorpreso di scoprire che è stato tratto un filmdal suo libro Il mangiatore di pietre. Una proiezione a cui non potevo mancare. Il romanzo è del 2004 e trattava già il tema dei porteur, mestiere antico di chi un tempo contrabbandava cose e oggi lo fa con le persone. Non ricordo che il romanzo fosse così lento, ma in effetti il film ha i tempi giusti della vita in montagna. La figura del protagonista Cesare è stata affidata a Luigi Lo Cascio e fa specie sentirlo parlare con la cadenza della Val Varaita, dove la storia è ambientata e filmata, tra Piasco, Sampeyre, Casteldelfino, Bellino. Cesare è un ex spallone con una storia torbida alle spalle, è soprannominato “il francese” per aver fatto un po’ di carcere a Marsiglia. Dai nuovi traffici vorrebbe stare alla larga, ma viene costretto a entrarci dalle circostanze che gli piovono addosso. A raccoglierne l’eredità è il giovane Sergio, un ottimo Vincenzo Crea (I figli della notte). Nel cast, in piccoli ruoli, anche Paolo Graziosi e Peppe Servillo. Coproduzione italo-svizzera.

Evviva il cinema francese che ci regala sempre film interessanti! Ulysse & Mona di Sébastien Betbeder, già noto al TFF, propone Éric Daniel Pierre Cantona, spigoloso e impulsivo quanto talentuoso calciatore del Manchester Udt, nel ruolo di un artista contemporaneo che ha lasciato famiglia e carriera per rifugiarsi in solitudine in un antico e nascosto maniero in mezzo a una foresta. Lì giunge la giovane studentessa Mona che in Ulysse ha il suo mito artistico. Vorrebbe avvicinarlo e conoscere da vicino la sua arte ma viene respinta in malo modo. Un malore di Ulysse tuttavia le consente di accompagnarlo in ospedale e da quel momento tra i due si instaura un rapporto amichevole. Mona ne diventa l’assistente e accompagna il misantropo Ulysse in un percorso in cui, grazie a lei, passato e futuro si riconnettono. Cantona dimostra una bravura eccezionale. Non so come sia considerato in Francia, nel cinema ha già fatto parecchio. Sembra un attore navigato, ha fatto passi giganteschi dai tempi di Il mio amico Eric (2009) diretto da Ken Loach.
Non poteva mancare al TFF il film favoletta in concorso. E’ Bad Poems dell’ungherese Gábor Reisz, (Menzione speciale della Giuria). Quella mattina ero entrato al cinema di malumore, poi il film mi ha ricaricato e rimesso in carreggiata. Inizia dalla fine di un amore tra il trentatreenne Tamás abbandonato a Parigi dalla fidanzata Anna che si trova nella capitale francese per studiare. Cartoline di Parigi, poi il rientro a Budapest. Riaffiorano (e rivive) ricordi d’infanzia, che si mescolano con sogni e aspirazioni, in particolare i rapporti con l’universo femminile. Tamás è raffigurato in almeno quattro periodi della sua vita (a 7 anni, 14, 18 e a 33), da adulto gli dà il volto lo stesso regista. Curiose e divertenti macchiette si alternano per tutto il film, dall’insegnante di matematica al padre, mentre i campi di lavanda evocano momenti felici vissuti con Anna. Sarà infatti uno scatolone pieno di fiori di lavanda a determinare l’insolito finale. Film leggero e divertente.
Il problema della disabilità e della sua gestione in famiglia irrompe prepotentemente al TFF con il film Marche ou crève di Margaux Bonhomme (in concorso). A Vercors, nell’omonimo parco del Delfinato, vive Elisa con Manon, che ha grossi problemi fisici e mentali, e il papà François. La gestione della disabilità della sorella, ormai ventenne, si è fatta più difficile da quando la mamma, sfinita da quel ménage, se n’è andata di casa. Elisa ha un lavoro nella Forestale per l’estate, prima di tornare in città a studiare, e si alterna con il padre nella faticosa gestione di Manon. E’ piena di entusiasmo verso la vita e ansiosa di averne una propria, ma è trattenuta dal senso del dovere e dalla responsabilità nei confronti della sorella. Padre e figlia fanno di tutto per Manon ma si rendono conto che la soluzione definitiva, sempre procrastinata, sarà il ricovero in una struttura, cosa peraltro auspicata anche dalla mamma. E così sarà, con grande tristezza da parte di tutti. Elisa ha il volto pulito di Diane Rouxel, 25 anni, mentre il padre è interpretato da Cédric Kahn. La sorpresa è Jeanne Cohendy. Per tutta la visione mi sono chiesto se Manon fosse una vera disabile. Invece no, è una grande interpretazione. Film duro e difficile, che richiede una rielaborazione personale.
Drammatico film politico è El Reino, di Rodrigo Sorogoyen
(Spagna/Francia). Ambientazione spagnola, partito di governo non meglio identificato che controlla tutta la vita politica, economica, sociale del paese. Dapprima il film ci descrive un ambiente molto sopra le righe: pranzi e cene a base di ostriche, aragoste e champagne, motoscafi, regalie di Rolex, valigette che si suppone siano piene di banconote. Un clima da fine dell’impero e infatti la caduta arriva sotto forma di indagini della finanza, intercettazioni, la macchia si allarga e coinvolge Madrid e il partito nazionale. Ognuno si difende come può, cercando di mantenere inalterato il proprio piccolo mondo di ruberie e privilegi. Manuel López-Vidal, vicesegretario regionale prossimo al salto verso la politica nazionale, principale obiettivo degli inquirenti, così come della stampa, tenta un’improbabile difesa in un talk show televisivo.  Sorogoyen punta l’indice contro l’attuale classe politica, totalmente mancante di etica. E’ quello che la società di oggi si merita. Film intenso che non lascia speranza sulla politica di oggi. Notizie dall’Italia?
Al cinema, come dicevo, c’è sempre da imparare. Soprattutto quando vengono presentati succulenti biopic come questo. Che ne sapevo io della scrittrice Colette? Nulla, se non che ha scritto romanzetti rosa, una Liala francese. Il regista Westmoreland ce la spiega meglio con una superba produzione britannica con la bella Keira Knightley nei panni di una tra le più importanti scrittrici francesi. E’ anche una ricostruzione del clima misogino della
Belle Époque, laddove Colette ha dato una grossa mano alla liberazione sociale e artistica della donna.
Dalle campagne della Borgogna ai salotti più esclusivi di Parigi, dapprima è costretta a pubblicare i suoi scritti con il nome del marito Willy (ricorda in parte la vicenda di Mary Shelley), poi si emancipa anche grazie al teatro e agli amori saffici ostentati. Dà scandalo ma viene apprezzata soprattutto dal pubblico femminile. Buon film di ambientazione storica. Quanto a Colette mi è venuta la curiosità di leggere qualcosa per capire meglio, magari iniziando dal suo primo successo Claudine a scuola (1900).
I delinquenti peggiori sono quelli che vestono abiti firmati, che hanno un’attività e una posizione sociale rispettabili. Insomma, i colletti bianchi. E’ questa la morale del film Vargur dell’islandese Börkur Sigþórsson che ricorda le ambientazioni gelide dei romanzi polizieschi di Arnaldur Indriðason. E’ un noir incalzante e dal finale a sorpresa. La giovane polacca Sofia viene ingaggiata per trasferire da Copenhagen a Reykjavik una grossa quantità di cocaina contenuta in ovuli di plastica che le sono stati fatti ingerire. Si tratta di un’operazione di grande valore. La ragazza è controllata a vista da Atli, un ex pregiudicato, il cui fratello Erik è appunto uno di quelli che tirano le fila del traffico. Qualcosa va storto, la ragazza sta male, la situazione precipita. Muore una poliziotta che agiva da sola ma un collega vuole vederci chiaro. Intrigante ma sanguinolento.
La disparition des lucioles è un bel film canadese (amo il cinema canadese) di Sébastien Pilote. Ci presenta una ragazzina annoiata e un po’ ribelle che vive nella ormai solita famiglia disgregata. Il padre ex sindacalista caduto in disgrazia è andato a lavorare lontano. La madre vive con un conduttore di una radio locale, uno che definiremmo un cretino totale. Ovvio che Léo non vada d’accordo con il patrigno. Finisce l’anno scolastico e cerca lavoro per l’estate. Ma, lo dice lei stessa, è incapace di mantenere un impegno a lungo. Così è stato per tutti gli sport che ha iniziato a praticare e per gli strumenti che ha provato a suonare. Da ultimo la chitarra, di cui prende lezioni da un musicista più grande,  ma anche lui non realizzato. E’ un film sul disimpegno dei giovani e sulla (voluta) mancanza di prospettive. Emblematica la risposta di Léo a chi le chiede cosa farà dopo la scuola: “Mi chiedete tutti del mio futuro, ma il futuro è molto lungo, c’è tempo”. Film semplice e delicato.
Da ultimo ho lasciato il film di Nanni Moretti, Santiago, Italia che sta passando sullo schermo nella serata finale del TFF proprio mentre scrivo queste righe. Tratta la caduta e la morte di Salvador Allende, l’ascesa di Pinochet e la feroce dittatura dei militari, attraverso le testimonianze di giovani intellettuali (professori, registi, artisti, politici) che a quel tempo avevano fortunosamente trovato riparo dentro l’ambasciata italiana. Erano centinaia e furono portati in Italia grazie a salvacondotti diplomatici. Si apprende che il nostro Paese fu l’unico a mantenere aperta l’ambasciata anche nei momenti più critici del colpo di stato dell’11 settembre 1973. In Italia c’era il governo Rumor, agli Esteri Aldo Moro e dici niente! Nanni Moretti rende omaggio all’Italia dell’epoca, così come lo fanno tutti i rifugiati di allora che qui hanno trovato una seconda patria. Con questo film Moretti narra il Cile di allora ma parla all’Italia di oggi!

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