“La fine. Amburgo 1943” di H.E. Nossack, testimonianza di una distruzione

Ho vissuto la fine di Amburgo da spettatore. Il destino mi ha risparmiato dall’avere un ruolo diretto nel disastro.
Hans Erich Nossack è stato uno dei pochi letterati tedeschi a elaborare la loro colpa nazionale per aver seminato morte e distruzione in tutta Europa. Lo ha fatto praticamente in presa diretta con questo scritto terminato nel novembre 1943 quando le macerie di Amburgo erano ancora fumanti dopo il bombardamento a tappeto della città da parte degli inglesi nell’estate dello stesso anno. La fine (Der Untergang) è poi confluito con altri scritti in un volume pubblicato nel 1948,  Intervista con la morte (Interview mit dem Tode). Il futuro scrittore, già censurato dal regime nazista per le prime opere giovanili, si sentì pubblicamente investito a raccontare ciò che si presentava ai suoi occhi.
“Mi sento incaricato di darne conto. Non chiedetemi perché ne parlo, con presunzione, come di una sorta di mandato: non so rispondere. Ho la sensazione che la bocca mi resterebbe serrata per sempre se prima non portassi a termine questo incarico. E sento anche l’urgenza di farlo sin d’ora“.
I primi bombardamenti erano iniziati da alcuni giorni quando Nossack decise di trasferirsi in un paesino a quindici chilometri dalla città. Affittò per due settimane da un contadino una casetta spartana, senza luce né acqua, e vi si installò con la moglie. In città avevano lasciato tutto. La casetta si ergeva seminascosta in un bosco di betulle sul dorso di una collina e lasciava intravvedere Amburgo in lontananza. Da quell’osservatorio, mentre la natura nella brughiera continuava a fare il suo corso, Nossack e sua moglie, notte dopo notte, hanno osservato tutto, i bengala che illuminavano a giorno la città prima di far piovere le bombe, i pochi traccianti della debole contraerea, il fischio e lo schianto degli shrapnel, i rari aerei abbattuti. Talvolta le bombe cadevano così vicine che la coppia doveva scendere da una botola in cucina e rinchiudersi in una cantina di terra. La mattina dopo ogni incursione gli sfollati provavano a chiedere a chi arrivava dalla città se quella casa, quella strada, quel numero civico fosse rimasto in piedi.
Era proprio il caos dei resoconti a conferire certezza alla dimensione della sciagura: l’orrore impediva di percepire i dettagli.
Gli attacchi tornavano ogni mezzanotte. La brughiera era disseminata di striscioline di stagnola, venivano lanciate a milioni dagli aerei per impedire alla difesa di usare i radar per rilevare la posizione degli apparecchi. In pratica gli strumenti venivano accecati. Poi ogni mattina una massa sterminata di persone si metteva in strada verso la città per verificare se esisteva ancora qualcosa dei loro averi. Intanto i bollettini ufficiali di guerra continuavano con le loro menzogne. La parola d’ordine che circolava era vincere la guerra per sperare di essere risarciti di quanto avevano perduto. Nessuno ci credeva più e nessuno se la prendeva più con chi continuava a bombardare.
Non ho sentito nemmeno una persona imprecare contro i nemici o attribuire a loro la colpa della distruzione. Quando sui giornali si trovavano espressioni come «pirati dell’aria» o «assassini incendiari», noi non gli prestavamo ascolto.
Erano trascorsi pochi mesi e altre città erano state distrutte, Amburgo la prima grande città ad essere totalmente annientata. Nossack torna più volte ad Amburgo, ovviamente ha perso tutto, casa e ogni cosa. Descrive però una sorta di straniamento nelle persone, come se la distruzione non li riguardasse. I corpi venivano cremati sul posto, le mosche impedivano alle persone di scendere nelle cantine, scivolavano su strati di vermi grossi un dito, i ratti avevano preso possesso della città.
E poi quell’odore di suppellettili carbonizzate, di marcio e di putrefazione che aleggiava sulla città. Un odore che era visibile nella forma di una polvere di malta secca e rossiccia che soffiava sopra ogni cosa.
Nossack aveva urgenza di scrivere affinché la ferita rimanesse aperta. Solo la letteratura poteva farlo. Le persone da commiserare non siamo noi che abbiamo il disastro alle spalle, commenta in conclusione Hans Erich Nossack, ma quelli che stanno ancora dinanzi all’abisso. Era novembre 1943, nulla di più profetico. Vengono allora in mente ottant’anni di ulteriori distruzioni e morte, ovunque nel mondo. E il drammatico corredo fotografico di questo libro non è forse identico a quanto da quasi un anno vediamo giungere dall’Ucraina?
Aggiungo che nell’indispensabile introduzione (La fine. Amburgo 1943 è edito da Il Mulino, 2005, con la traduzione di Biagio Forino) la storica Gabriella Gribaudi fa il punto sui reciproci bombardamenti tra tedeschi e angloamericani, fornisce cifre, distingue le diverse strategie tra area bombing e moral bombing. In questo caso, indurre una popolazione alla ribellione, spingerla a chiedere la pace. Viene in mente nulla?
Ancora una volta devo all’immenso W.G. Sebald la lettura di questo libro. Aveva scritto di Nossack in Storia naturale della distruzione, nel 2001, poco prima della sua morte, e ancora nella raccolta postuma di saggi Tessiture di sogno, Adelphi 2021.

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