Ho letto “La ferita dell’aprile” di Vincenzo Consolo

L’aria incensata non stonava alla fine col mangiare: l’agrodolce il pepe la menta il rosmarino; il vino gilepposo; la cannella il garofano il mandarino i pistacchi nella crema dei cannoli.
Mi è sembrato utile concludere il mio excursus nella narrativa di Vincenzo Consolo (i titoli letti sono riportati qui in fondo e rimandano ai miei commenti, opere peraltro contenute in uno splendido volume dei Meridiani) leggendo La ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963, quando lo scrittore di Sant’Agata di Militello era appena trentenne. La ferita dell’aprile si rifa alle esperienze giovanili di Consolo (quasi un’autobiografia non dichiarata) in una Sicilia appena uscita dalla guerra e che porta ancora i segni del fascismo, dei bombardamenti, del passaggio degli americani che distribuivano pacchi di conforto.
È narrato in prima persona da Scavone, un ragazzo al confine tra infanzia e adolescenza, attento osservatore di ciò che lo circonda: gli amici, il paese, la chiesa, i primi turbamenti amorosi, l’irrompere della politica nella vita quotidiana. Orfano di padre, viene messo a pensione dallo zio paterno in una famiglia di un paese vicino per permettergli di frequentare l’Istituto gestito dai padri arrivati da Torino. Fondamentale la figura di don Sergio, tenente cappellano, tormentato reduce dalla campagna di Russia, animatore delle attività della parrocchia e insegnante di varie materie all’istituto.
Era pieno di chiacchiere e di tabacchiere, sano sano. Russia, oh Russia. Meschino, gli vennero le lacrime ma non le diede a vedere. ..ma tutti quei denti d’acciaio lucente facevano pensare a dei proiettili, a cose di guerra… Che importa vincere o perdere una guerra? Importa il dopoguerra.
Di religione è pieno tutto il racconto, le immagini di Don Bosco e San Luigi Gonzaga, le recite in teatro sulle storie dei missionari (Cominciò il secondo atto: qui si contempla come i missionari si scansarono d’un pelo dall’essere scannati), la Pasqua con tutte le rappresentazioni e le altre festività che sempre si concludono con il cibo: L’aria, per strada, era striata di odori come il mare di correnti, odore di stufato e di scorze di cannoli.
Lo zio Peppe, severo, uomo di montagna più che di mare, ha preso il posto di suo padre, ha un autocarro e commercia in vini, talvolta porta con sé il ragazzo che si interroga sui reali rapporti tra sua mamma e il cognato. Seppur sempliciotto si occupa del suo futuro.
La prima idea fu quella del barbiere, e mi mandò al salone a far le saponate, poi il sarto, ad infilar le aguglie e levar l’imbastiture, scarparo pittore mastro d’ascia, tutte arti leggere, che si vedeva che non avevo la possanza per taglialegna e carbonaio, manco l’intelligenza del vinaio.
Scorrono le immagini degli amici, alcuni più grandicelli e già scafati, Tano Squillace, Vittorio Seminara, Filippo Mùstica compagni di scuola, di scherzi e di scorribande per i catoi, le figure femminili, Merì Campisi, vispetta, na cavallina in caldo, figlia di un mericano rimandato in Sicilia per qualche sgarbo alla mafia, Caterina, coetanea, figlia della signora da cui stava a pensione e primo turbamento erotico di Scavone, la puttana Maruzza che faceva un giro in carrozza davanti la chiesa dopo messa per adescare gli uomini quando le mogli erano rientrate in casa e loro attendevano che calassero la pasta.
C’è spazio per rammentare la presenza di dialetti galloitalici o longobardi in provincia di Messina (curioso il dialetto di San Fratello, confinante con Sant’Agata). Scavone parla una lingua particolare, diversa da quella dei suoi coetanei che lo deridono e lo fanno sentire strano. Lo chiamano zanglè (frettolosamente derivato da les anglais). Intanto sui fatti minuti della vita del paese si sovrappongono episodi storici importanti e talvolta drammatici: le elezioni del 1947, la strage di Portella della Ginestra, il colera a Palermo, l’eruzione dell’Etna. E qui e là occhieggia la mafia…
Ma il giovane Scavone è anche attento osservatore della natura che lo circonda. E qui la voce di Vincenzo Consolo narratore diventa autentica poesia.
Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: poteva cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo.
È un romanzo stupendo che anticipa quel linguaggio originale, cifra stilistica che differenzia Consolo dagli altri scrittori siciliani. Vissuto a lungo a Milano non ha mai dimenticato la sua terra e ha sempre continuato a  scriverne. Consolo ti fa amare quel pezzo di Sicilia anche se non lo conosci e se ci sei stato fa venire voglia di ripartire.

Nottetempo, casa per casa (1992)
Lunaria (1985)
L’olivo e l’olivastro (1994)
La mia isola è Las Vegas (2012)
Retablo (1987)
Esercizi di cronaca (2013)
Lo spasimo di Palermo (1998)
Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
Le pietre di Pantalica (1988)

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