Ho letto “Gli emigrati” di Winfried G. Sebald

In questo periodo, diciamo convulso, non potevo lasciare in disparte un libro con un titolo così. Raccoglie quattro scritti pubblicati in tedesco nel 1992 e nel 1996 in Inghilterra dove lo stesso Sebald era emigrato, a Norwich per insegnare Letteratura europea alla University of East Anglia.
Le quattro storie riguardano altrettanti personaggi ai quali Sebald si è appassionato. Hanno in comune il fatto di essere legati alle vicende del popolo ebraico ed emigrati dalla Germania in Inghilterra o negli Stati Uniti.
I temi dei libri di Sebald sono sempre la memoria e il viaggio, con qualche concessione all’arte e alla natura. La metodologia è inconfondibile: entra nella vita delle persone, ne ripercorre il cammino, cerca amici e testimoni, diari, documenti, ritagli di giornali, fotografie, cartoline, e viaggia alla ricerca di tutto questo. Ogni dettaglio è uno spunto per ulteriori approfondimenti. Anche il suo stile è unico: non usa paragrafi o capoversi, ingloba i discorsi diretti nella narrazione, le pagine diventano così una sequenza compatta di caratteri tipografici – salvo l’inserimento delle fotografie in bianco e nero, anche da lui stesso scattate – che potrebbe respingere il lettore. Non nel mio caso, che raccolgo gli stimoli e vado ad approfondire luoghi, personaggi, avvenimenti. Insomma, per me W.G. Sebald è un maestro.

Il dottor Henry Selwyn è un medico che si è ritirato nella villa della moglie nella campagna inglese e si occupa di fiori, frutta e ortaggi. Nel 1970 Sebald ha vissuto lì per qualche mese, affittando una parte della casa. Durante gli incontri, proseguiti anche dopo il suo successivo trasloco, Selwyn gli confida di aver combattuto nella Grande guerra, ma soprattutto che la sua era una famiglia di emigrati.
…dopo aver riflettuto un poco, mi confessò – qualsiasi altro verbo sarebbe improprio – di essere stato colto negli ultimi anni da soprassalti di nostalgia sempre più frequenti. Quando gli domandai quale fosse il luogo in cui desiderava tornare, mi raccontò che all’età di sette anni era emigrato con la sua famiglia da un villaggio lituano nelle vicinanze di Grodno.
Come tanti emigranti, la famiglia di Selwyn aveva acquistato il viaggio verso l’America e quando il bastimento li sbarcò a Londra erano ancora convinti di essere nel Nuovo Mondo. Cambiarono il cognome da Seweryn in Selwyn e si adattarono. Confida a Sebald che la dissoluzione del suo matrimonio sia da imputare al fatto che ha sempre taciuto alla moglie le sue origini. Qualche tempo dopo il loro ultimo incontro il malessere esistenziale accumulato sfocia in un colpo di fucile in bocca.

Paul Bereyter nel dopoguerra era stato maestro elementare di Sebald. Nel 1984 apprende la sua morte dal necrologio di un giornale locale tedesco. L’articolo non diceva nulla della sua libera scelta di togliersi la vita, né soprattutto del fatto che il Terzo Reich ad un certo punto lo aveva interdetto dall’insegnamento. Lo scrittore scopre tante cose quando incomincia a curiosare nella vita del suo vecchio insegnante. A scuola era conosciuto solo come ‘Paul’, anche dai suoi allievi, con i quali aveva un rapporto speciale, quasi da fratello maggiore. Quello che Paul chiamava insegnamento dimostrativo ci portò, prima o poi, in tutti i luoghi che, particolarmente interessanti per una ragione o per l’altra, si trovavano nel raggio di circa due ore di cammino dalla nostra scuola.
Per Sebald è l’occasione di rispolverare i ricordi d’infanzia, mentre su Bereyter non trova molto fino a quando incontra una certa signora, Lucy Landau, tedesca di Francoforte ma trapiantata in Svizzera a Yverdon-les-Bains, che lo aveva conosciuto e poi si era occupata delle esequie. Con lei lo scrittore riesce, tassello dopo tassello, a fare un quadro della vita del suo maestro. Ebreo per un quarto, Bereyter aveva comunque servito la Wehrmacht nella Seconda guerra mondiale, ripreso la scuola e poi si era trasferito defintivamente in Svizzera. Mme Landau consegna a Sebald i quaderni del maestro, scritti con grafia minuta. Beyeler era ossessionato dai treni fin da bambino: per tutta la vita ha raccolto orari, tabelle, approfondito la logistica, disegnato scambi, caselli, stazioni, depositi merci.
…non mi passò mai per la mente che, nell’universo ferroviario, egli avesse trovato per così dire la cifra del suo destino di sventura.

Diversa e più complessa è la storia di un prozio di Sebald, Ambros Adelwarth, emigrato fin da giovanissimo, a lungo in Europa poi definitivamente in America. Le tracce del lontano parente portano Sebald più volte negli Stati Uniti, in Svizzera, in Germania. Ambros aveva iniziato dal basso, poi era divenuto cameriere negli hotel di lusso di mezzo mondo e infine apprezzato maggiordomo nell’alta società americana. Una zia ancora vivente a Cedar Glen West, contea di Ocean, New Jersey, ricorda il proprio arrivo negli Usa, dove zio Adelwarth viveva da qualche anno:
Oltre centomila ebrei arrivavano qui ogni anno e affittavano i piccoli alloggi bui dei casermoni a cinque piani. Solo il cosiddetto ‘parlour’ aveva, in quegli alloggi, due finestre che davano sulla strada, e davanti a una scala d’emergenza.
La zia estrae dal cassetto un album di fotografie e cartoline appartenuto ad Ambros. La parte più interessante della sua vita è quando si lega a un miliardario eccentrico, Cosmo Solomon, di cui diventa qualcosa di più di un semplice maggiordomo. Insieme girano il mondo, vincendo ma poi spendendo delle fortune nei casinò, dove venivano spesso dilapidati in poche ore interi patrimoni, beni di famiglia, proprietà immobiliari e il lavoro di un’intera vita. Ambros lo accompagna in Turchia e Asia Minore, fino a quando Cosmo si ammala e viene ricoverato in una clinica psichiatrica. La stessa sorte avrà Ambros a cui il miliardario aveva lasciato delle proprietà. La zia infine consegna a Sebald un taccuino su cui Ambros aveva narrato le ultime vicissitudini. Avuto un quadro abbastanza completo della vita del prozio, a Sebald non resta che andare a Ithaca, nello Stato di New York, nell’ultima clinica dove Ambros era stato rinchiuso. Lì scopre con raccapriccio che il vecchio maggiordomo si sottoponeva frequentemente e di propria volontà alla terapia con elettroshock. Voleva forse autopunirsi. Intanto Sebald legge l’agendina, le cui ultime parole recitano:
Ho spesso l’impressione che il ricordo sia una forma di stoltezza. Ci rende la testa pesante, ci dà le vertigini, come se non si stesse guardando all’indietro attraverso le fughe del tempo, bensì giù verso la terra da grandi altitudini, da una di quelle torri che si perdono nel cielo.

Non meno intrigante è la vita del pittore ebreo-tedesco Max Ferber, anche lui emigrato in Inghilterra, a Manchester, con cui Sebald fa amicizia e di cui raccoglie le confidenze. Erano gli anni, dal 1966 al 1969, in cui lo scrittore era lettore all’Università di Manchester e viveva in un triste alberghetto. Gli incontri con il pittore occupavano il suo tempo libero.
Accade poi che nel 1970 Sebald va a insegnare in Svizzera per un anno e poi torna in Inghilterra. I ricordi di Ferber diventano fugaci, fino a quando nel 1989 durante una visita alla Tate Gallery di Londra (era lì per vedere la Venere dormiente di Dalvaux) vede esposto un suo quadro e successivamente trova su una rivista un’intervista al pittore, con molti dettagli di cui era a conoscenza e altri per lui nuovi. Va a Manchester ma trova Ferber in fin di vita all’ospedale. Ma dopo vent’anni è come se Ferber lo aspettasse. Gli consegna infatti un quaderno, scritto di pugno dalla madre Luisa Lanzberg, in cui è raccontata la storia della famiglia. La vita idilliaca in un villaggio della Baviera da ragazza, il matrimonio, la nascita del piccolo Max, il terrore della deportazione. Sebald lo trascrive tutto, prima però raccoglie le ultime confidenze del pittore. Come il padre avesse racimolato i soldi, corrotto il console inglese e ottenuto il visto per il figlio, la partenza da solo con un volo Lufthansa da Monaco per Francoforte, l’ansia per il controllo alla dogana, il volo BEA per Londra, verso una vita da emigrato-bambino. Max Ferber non rivide più i genitori.
Ma per Sebald la storia non finisce lì. Lui è uno che non si accontenta. Nel 1991 in occasione di un viaggio in Germania si reca a vedere i luoghi della famiglia Lanzberg, Kissingen e Steinach.
Incominciai la mia prima giornata a Kissingen con un giro degli impianti termali. Le anatre dormivano ancora nell’erba, la lanugine bianca dei pioppi volava nell’aria, e alcuni ospiti isolati passeggiavano – umbratili viandanti – sui sentieri sabbiosi.

Gli anelli di Saturno: un pellegrinaggio in Inghilterra
Secondo natura: un poema degli elementi
Storia naturale della distruzione
Il passeggiatore solitario: in ricordo di Robert Walser
Le Alpi nel mare
Moments musicaux
Soggiorno in una casa di campagna 

Share this nice post:
Questa voce è stata pubblicata in Libri, Viaggi e contrassegnata con , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*